– Road to London 2012 – 25 Luglio 1992, 25 colpi di cannone ricordano le edizioni e i campioni del passato, mentre in campo più di 300 coppie ballano la sardana, danza regionale, in versione cinque cerchi. I cieli della Catalogna sono dominati dagli aerei, ma questa volta non battono bandiera tedesca e non bombardano Guernica, colorano il cielo. L’unica invasione è quella dei 200 ballerini di flamenco che prendono lo stadio olimpico del Montjuic sulle note di Placido Domingo. È ora della parata degli atleti. Che si preparino i 3 miliardi di spettatori, non sarà la solita sfilata di campioni. A Barcellona sfila un mondo nuovo
"POSA'T GUAPA, BARCELONA" – È il 17 ottobre 1986. Che Jacques Chirac si rassegni pure, nonostante il suo intervento Parigi non otterrà la XXV edizione dei giochi. Né Amsterdam né Belgrado, questa volta i cinque cerchi rendono omaggio a Gaudì. “La mia gioia è enorme, come quella di tutti gli spagnoli” commenta trionfante Re Juan Carlos, e per las ramblas impazza la festa. “ El COI hizo realidad el viejo sueno de todos” titola El Mundo Deportivo. Non avrebbe potuto fare scelta migliore il Comitato. Barcellona, romantica e rivoluzionaria per cultura, libera per tradizione, fu l’ultima città ad assoggettarsi al potere franchista. Correva l’anno 1939, quando il Frente Popular, dopo mesi di assedio, si arrendeva proprio nella città catalana, ultimo avamposto libero di una Spagna che fu. A 53 anni di distanza giunge a compimento, anche grazie allo sport, un viaggio intrapreso proprio a Barcellona, simbolicamente eletta, in un freddo pomeriggio d’autunno del 1986, come ultima tappa di un pellegrinaggio verso la libertà.
THE POWER TO CHANGE THE WORLD – Dopo 32 anni riemerge il Sudafrica. Incredulo il pubblico non riesce a scorgerne la bandiera. Non c’è sulla pista, vanno ricordate le stragi, ma non è lì che va cercata. Il portabandiera in questo caso siede comodamente in tribuna. È reduce da 27 anni di prigionia, ma non ha perso la forza e il coraggio di sognare.“Unitevi! Mobilitatevi! Lottate! Tra l'incudine delle azioni di massa ed il martello della lotta armata dobbiamo annientare l'apartheid!” gridava da Robben Island nel 1980. Ora il messaggio è un altro, Nelson Mandela ne è convinto: "Sport has the power to change the world". Dove non arrivano intelligenza e cultura, può arrivare sicuramente una palla ovale. Sarà il rugby a trasformare un paese in cui il razzismo era sancito dalla legge nella “nazione arcobaleno”; a spianare la strada alla parte nera del paese saranno i “bianchi springboks". Odiati da sempre, odiati a prescindere. In Sudafrica, infatti, niente come la maglia verde delle “antilopi” è sinonimo di apartheid. Solo un pazzo può pensare che ciò che da sempre divide possa ora unire. Un pazzo, o un utopista. O semplicemente un uomo che si è fatto 27 anni di prigionia e che, non appena messo il naso fuori di prigione, è pronto a “perdonare”.
UNA VITTORIA, UN POPOLO – È a Robben Island che nasce il sogno di Mandela. Un sogno sportivo che comincia proprio ai Giochi Olimpici di Barcellona, dove la squadra sudafricana vincerà due medaglie d’argento, e che verrà suggellato dall’indimenticabile vittoria di Ellis Park, il 25 giugno 1995 a Johannesburg. Quel giorno, il Sudafrica guidato da Francois Pienaar ebbe la meglio sulla Nuova Zelanda. Fu una vittoria che unì un paese. A riconoscerlo fu lo stesso Mandela: “Francois, grazie per quanto avete fatto per il Paese”. Il capitano della selezione, imbarazzato dinanzi a tanta grandezza, riconobbe che si, lo sport ha sicuramente dato una mano, ma la più grande vittoria, il 25 giugno 1995, fu quella di Madiba: “No, signor Presidente. Grazie a lei per quello che ha fatto”. Ma ritorniamo sulla pista d’atletica dello Stadio Olimpico di Barcellona: lì sfila un mondo nuovo, forse incerottato ma sicuramente nuovo. Applausi a Bosnia e Croazia e ai loro atleti, in fuga da una guerra che interessa solo a chi la soffre. Nati dalla disgregazione della Jugoslavia, dove sta per esplodere un feroce e interminabile conflitto etnico e religioso, fanno di tutto per esserci. Dopo quasi un quarto di secolo torna a competere una sola Germania. “La Germania ci piace cosi tanto che preferiamo averne due”. Cosi Andreotti, ma l’olimpismo non concorda, e a Barcellona prende forma una nuova rappresentativa, anch’essa risorta, insieme a Berlino e alla Germania tutta, il 9 novembre 1989. “Nessuno sa come sarà una Germania riunificata” disse Helmut Kohl, cancelliere della Repubblica Federale prima e della Germania unificata poi, all’indomani del crollo del muro di Berlino. Se fosse stato interrogato il medagliere al riguardo, non avrebbe esitato a definirla vincente.
"ADIOS, URSS" – Il vento della Perestrojka che ha sconvolto l’Est produce i suoi effetti anche in ambito sportivo. La Guerra Fredda è ormai un capitolo chiuso, l’ Unione Sovietica non esiste più. Un vero e proprio boato scuote lo stadio olimpico quando giunge il momento della Comunità Stati Indipendenti. La spartizione sportiva dell’Unione Sovietica, politicamente divisa in 12 repubbliche, non è ancora avvenuta: sarà ufficiale solo a partire dal Gennaio 1993. Così decidono, dopo mesi di lavorio politico e diplomatico, Juan Antonio Samaranch, Presidente del CIO, e Boris Elstin, primo Presidente della Federazione Russa. L’escamotage salvaguarda il fascino della tradizionale rivalità fra Est e Ovest: a Barcellona le 12 nuove repubbliche gareggeranno per l’ultima volta insieme, saranno scortate dalle note dell’Inno alla Gioia di Beethoven ( chissà perché proprio lui, che era tedesco) e dal vessillo bianco, rosso e azzurro della Russia zarista. L’Olimpiade catalana è infatti l’Olimpiade dell’ultimo Zar. Si chiama Alexander Popov, viene da Sverdlovsk, è figlio di operai e pare che da ragazzo abbia studiato danza al Bolscioi. L’eleganza e la classe spadroneggiano in piscina. È reminiscenza di quei tempi,forse, la sovrannaturale grazia con cui interpreta il nuoto. Scivola in acqua, lo Zar. Medaglia d’oro nei 50 e nei 100 metri, sottraendo per la prima volta nella storia lo scettro della velocità ai colleghi statunitensi.
LE FOLLIE DEL DITTATORE – Il pubblico proprio non riesce a dimenticare le immagini provenienti da Kuwait City. È il 2 agosto 1990, l’esercito iracheno invade il Kuwait, lembo di terra infarcito di petrolio. La comunità internazionale assiste incredula allo profanazione di un paese. Il regime baathista di Saddam Hussein va fermato. L’amministrazione americana guidata dal repubblicano George Bush, con l’avallo delle Nazioni Unite, scatena l’inferno nel Golfo Persico, considerato di vitale interesse. La gestione delle operazioni militari è affidata al Generale Colin Powell. È originario della Giamaica, terra di corridori, dominatori della velocità. Anche il Generale vuole essere veloce, vuole dominare nei cieli e per terra. “Concentrare una forza dominante nel teatro bellico”, questo il principio guida che condurrà gli Stati Uniti ad uno schiacciante successo militare.
IL SOGNO DIVENTA REALTÀ – Una copia del Foreign Affairs, rivista nella quale il Generale Powell enunciò la dottrina della forza schiacciante, deve averla letta anche Chuck Daly, coach della nazionale statunitense di basket. Se il primo assemblò una overwhelming force per avere la meglio sull’ Iraq husseiniano, il secondo mise insieme i più importanti giocatori del globo per scherzare con il mondo degli umani. “Si, ok, a Seul hanno vinto i sovietici ma lì si giocava, qui a Barcellona vogliamo far sul serio e farlo velocemente, prima della mezzanotte, a quell’ora apre il Jimmy Z’s e noi ragazzoni d’America ci vogliamo divertire. E vogliamo divertire il mondo.” Hanno uno spirito olimpico particolare e non hanno paura ad ammetterlo quando danno una prima, ed ultima,occhiata al villaggio olimpico: “siamo qui per battere gli avversari, non per vivere con loro”. È la squadra più forte che abbia mai giocato, forse che giocherà mai : Larry Bird, Karl Malone, Jonh Stockton, Clyde Drexler, Scottie Pippen,Michael Jordan e Magic Johnson, il più umano degli dei. Se sul campo non ha avversari, il gigante originario del Mississipi è la prova vivente dell’umanità dei marziani: nella vita reale, smessi i panni del campione, combatte contro l’AIDS. Si è già ritirato dall’attività sportiva quando riceve la chiamata per partecipare alle Olimpiadi di Barcellona, se la squadra è da sogno è anche perché Magic ha deciso di esserci, da sieropostivo: "vado alle Olimpiadi,vinco, e dimostro al mondo che si può essere grandi anche nella malattia".
VAE VICTIS! – In nessuna competizione si era mai presentata una squadra invincibile, invulnerabile, dotata quasi di poteri sovrumani. Persino il nome attribuitole, “Dream Team”, è sembrato scelto apposta per evocare qualcosa di astratto, qualcosa che appartiene a una realtà sconosciuta nel mondo concreto del basket olimpico. La sconfitta è un evento impossibile per la squadra dei sogni: trentotto punti di margine sul Portorico, cinquantuno sulla Lituania, trentadue sulla Croazia, alla quale viene concesse l’onore di trovarsi addirittura in vantaggio per 25 a 23, prima di essere annientata.
IL PRIMO PASSO IN UN MONDO NUOVO – Barcellona fu l’Olimpiade dei sogni, e dei sognatori. “C’è chi spera che qualcosa accada, chi vuole fortemente che accada e chi la fa accadere”,è solito dire Magic Johnson. I protagonisti di Barcellona appartengono sicuramente al terzo gruppo.
Simone Grassi [email protected]