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Giappone: le contraddizioni sul clima

In attesa dell’imminente apertura della conferenza sul clima di Parigi si parla molto del ruolo che avranno Stati Uniti e Cina. Mentre l’Europa rimane la prima della classe nella riduzione delle emissioni, qual è la posizione della terza economia mondiale, il Giappone? Negli ultimi anni, a seguito del disastro di Fukushima, la politica climatica nipponica si è intrecciata sempre di più con la politica energetica nazionale, facendo venire alla luce i contrasti tra Governo, imprese e opinione pubblica. Che piani ha il Governo Abe?

IL GIAPPONE E LA DIPLOMAZIA DEL CLIMA – Il Giappone ha storicamente giocato un ruolo attivo nella definizione delle politiche climatiche internazionali. Nel 1997 ospitò la terza Conferenza delle Parti (COP3) UNFCCC (United Nations Framework Convention on Climate Change) nella cittĂ  imperiale di Kyoto, che portò alla stesura del relativo famosissimo Protocollo, uno dei piĂą importanti traguardi raggiunti sul clima a livello internazionale. Cosi facendo Tokyo si presentava all’epoca come leader nella promozione di un accordo condiviso a livello globale in tema di politica ambientale. Tuttavia nel 2005, nonostante (a differenza degli USA) avesse giĂ  ratificato il trattato fin dal 2001, il Giappone siglò l’APP (Asian Pacific Partnership on Clean Development and Climate), un accordo alternativo non vincolante promosso da Washington per lo scambio di tecnologie “green”. Se inizialmente questa mossa fu giustificata come un nuovo tentativo di mediazione tra USA e UE nella negoziazione di un quadro comune, di fatto questa scelta segnò un cambio di rotta nella strategia giapponese sul clima. Nel 2009, in occasione  della COP15, la delegazione giapponese sostenne con forza la creazione di un nuovo ambizioso trattato vincolante per tutte le parti, che superasse Kyoto, considerato penalizzante per le aziende giapponesi. Di conseguenza, quando nel 2011 venne il momento della seconda ratifica del Protocollo di Kyoto, Tokyo fece marcia indietro e rifiutò la sua firma. Tuttavia, forse mosso da senso di colpa, il Giappone ha continuato a giocare un ruolo chiave nelle negoziazioni internazionali, impegnandosi a fornire 11 miliardi di dollari in finanziamenti per UNFCCC e 15 miliardi in aiuti ai Paesi in via di sviluppo.

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Fig. 1 – Mancano poche settimane alla COP21 di Parigi sul clima

SFIDE INTERNE PRE-FUKUSHIMA – Nonostante, in base agli accordi di Kyoto, il Giappone si fosse impegnato a ridurre le sue emissioni del 6% rispetto ai livelli del 1990, di fatto nel periodo 1990-2012 ha registrato un aumento maggiore del 6%. L’attivismo nipponico sul piano internazionale in fatto di clima era forse una strategia per nascondere una sostanziale rinuncia sul fronte interno? In realtĂ  l’evoluzione della politica climatica giapponese richiama l’immagine di un pesce che si dibatte senz’acqua dentro una rete, prima di soccombere definitivamente e perire. In effetti, dopo che ad un decennio dal Protocollo di Kyoto pochi passi avanti erano stati fatti, tutti e quattro i Governi che si sono succeduti dal 2007 al 2012 hanno rivisto gli obiettivi di medio-lungo termine sul clima in maniera disomogenea, senza proporre un programma credibile per il breve termine. L’unico piano – proposto dal Governo Hatoyama del 2010 – che prevedeva l’introduzione di un sistema per lo “scambio di emissioni” come avviene in UE, una “carbon tax” e benefici fiscali per l’uso delle energie rinnovabili, venne bocciato dalla Dieta (l’organo legislativo) quando il Governo cadde alla fine dell’anno.

LE RAGIONI DELLA “PARALISI” – Un argomento spesso avanzato a difesa del Giappone è che giĂ  negli anni Ottanta il Paese aveva investito in modo massiccio nell’efficienza energetica, con l’invidiabile risultato di occupare il primo posto nei ranking sulle emissioni nel successivo ventennio. Il rovescio della medaglia sta nel fatto che ulteriori miglioramenti nei livelli di efficienza hanno un costo marginale piĂą alto rispetto ad altri Paesi, il che danneggia la competitivitĂ  delle aziende giapponesi nei mercati internazionali. Questo fatto, in combinazione con la recessione che ha colpito il Paese dalla metĂ  degli anni Novanta, aiuta a comprendere le incertezze nella politica giapponese sul clima. Infine, secondo numerosi osservatori, sempre a partire dagli anni Ottanta, il Giappone avrebbe sviluppato e esportato una serie di tecnologie nel settore manifatturiero ed energetico, che avrebbero successivamente permesso ad altri Stati di ridurre le proprie emissioni a fronte dei livelli giapponesi. A complicare ulteriormente la situazione, nel 2011 la nazione asiatica fu colpita dal disastro nucleare di Fukushima, che ha portato all’abbandono del nucleare, e di conseguenza a una maggiore dipendenza dai combustibili fossili.

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Fig. 2 – L’incidente di Fukushima ha lasciato segni profondi nella societĂ  giapponese

POST-FUKUSHIMA E PROSPETTIVE FUTURE – Cosa ci si può dunque aspettare dal Giappone riguardo alla politica sul clima? Il Governo Abe propone come nuovo obiettivo una riduzione del 18% delle emissioni di CO2 entro il 2030. Nel Paese, però, la legislazione sul clima rimane al momento velleitaria e sprovvista di efficaci strumenti d’intervento. Un altro problema sta nel fatto che, storicamente, la politica climatica è gestita da organi diversi. Anche se il Ministero dell’Ambiente (ME) è nominalmente il principale responsabile, di fatto è il Ministero per l’Industria e il Commercio (METI), che oggi ha l’ultima parola sull’attuazione delle politiche climatiche. Quest’ultimo ha forti legami con le associazioni industriali (di cui sono membri influenti i grandi conglomerati, cosiddetti keiretsu), che a loro volta supportano il Partito liberal democratico, che domina la politica del Paese dal 1955 ed è attualmente al Governo. Il METI ha sempre spinto per una legislazione sul clima che salvaguardasse la competitivitĂ  delle grandi aziende giapponesi, opponendosi sistematicamente alle proposte del (piĂą debole) ME. Per contrastare lo strapotere dei keiretsu, i rappresentanti delle piccole e medie aziende si sono coalizzati a sostegno dell’introduzione del “mercato delle emissioni”,  sperando in questo modo di guadagnare competitivitĂ  in un sistema che premia una maggiore efficienza energetica. Infine, anche se dopo Fukushima l’opinione pubblica è diventata piĂą sensibile al problema delle emissioni e favorevole a politiche piĂą incisive, non ha a sua disposizione strumenti per esercitare sufficiente pressione sul Governo, poichĂ© la legge pone una serie di ostacoli alla creazione di organizzazioni non-governative a difesa dell’ambiente.
In conclusione, nonostante in Giappone ci sia consenso sulla realizzazione di obiettivi più ambiziosi in fatto di clima, oggi chi al Governo avrebbe i mezzi per ottenere risultati concreti sembra prestare più attenzione alle domande dell’industria che a quelle della società civile.

Valeria Giacomin

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Un chicco in piĂą

Per approfondire si suggerisce Iguchi M., Luta A. and Steinar A., Japan Climate Policy: Post Fukushima and Beyond, 2015.

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Foto: Organisation for Economic Co-operation and Develop

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Valeria Giacomin
Valeria Giacomin

Laurea Triennale in Finanza presso l’università Bocconi nel 2009, Double Degree in International Management con la Fudan University di Shanghai tra il 2009 e 2011 e master di secondo livello in Economia del Sud Est Asiatico presso la SOAS di Londra nel 2012. Più di due anni in giro per l’Asia e gran voglia di avventura. Tra il 2010 e il 2012 ho lavorato in Vietnam come analista, a Milano come giornalista e a Città del Capo presso una compagnia e-commerce.
Le mie aree d’interesse sono il commercio internazionale, business development e dinamiche di globalizzazione nei paesi emergenti, in particolare nel settore delle commodities agricole.
Dal 2013 sono PhD Fellow in Danimarca presso la Copenhagen Business School. Sto scrivendo la mia tesi di dottorato sull’evoluzione del mercato dell’olio di palma in Malesia e Indonesia e più in generale seguo progetti di ricerca sul settore agribusiness in Sudest Asiatico.

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