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La Giordania nell’instabilitĂ  mediorientale

Nella caotica complessitĂ  del Medio Oriente, la Giordania è uno dei pochi Stati arabi immune alla cronica instabilitĂ  regionale e capace di assorbire le tensioni lungo i suoi confini. Nonostante siano numerosi i problemi interni che affliggono il Paese, il suo ruolo è fondamentale nel bilanciamento degli equilibri dell’area.

UN PICCOLO STATO PER COMPLESSI EQUILIBRI – Il Regno Hashemita di Giordania rappresenta al momento una delle poche garanzie all’implosione definitiva del Medio Oriente sotto il peso del caos a cui è stato condannato. La sua funzione sembra oggi ricalcare quella per cui Churchill, all’epoca Ministro delle Colonie, l’aveva progettato e affidato nel 1921, con il nome di Transgiordania, al figlio di al-Husayn, capo della Rivolta Araba contro l’Impero Ottomano.
Questo piccolo Stato che si estende dalla Valle del Giordano all’altopiano della Transgiordania fino al deserto iracheno, possiede un peso geopolitico superiore alle sue reali capacità economico-militari, avendo garantito una maglia di assorbimento delle tensioni del magma arabo e un importante bilanciamento delle influenze sovietiche durante la Guerra Fredda. Inoltre fu il secondo Paese arabo, dopo l’Egitto di Sadat, a firmare un Trattato di Pace con Israele nel 1994 nell’ottica di riguadagnare le simpatie occidentali dopo l’appoggio dato a Saddam nella Guerra del Golfo e per giungere ad importanti intese di cooperazione. Tra queste la più importante è senza dubbio quella in materia di condivisione delle risorse idriche del Giordano con Tel Aviv e l’Autorità Nazionale Palestinese.

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Fig. 1 – Sua MaestĂ  Abdullah II, succeduto al padre Hussein sul trono di Giordania nel febbraio 1999

Le buone relazioni con Israele, anche se più formali che sostanziali, e l’appoggio americano al Regno sono però anche fattori di vulnerabilità sociale e regionale, portandosi dietro il fardello delle azioni di Washington in Iraq e quelle di Tel Aviv su Gaza e nei territori occupati. Il peso dell’impopolarità è sembrato però al Re tutto sommato sostenibile se paragonato ai benefici che lo Stato ha ottenuto dagli Stati Uniti in termini di economia e sicurezza nazionale.  Con l’articolarsi della crisi siriana in un conflitto internazionale e la pressione crescente dello Stato Islamico, nel 2014 il Congresso americano ha infatti stanziato circa 1 miliardo di dollari in aiuti alla Giordania e dal 2012 è stata aumentata la presenza militare nel paese per difendere i confini con la Siria, senza contare i proventi del Fondo di Partenariato contro il Terrorismo di cui il Paese fa parte.
Per un Paese che sopravvive grazie agli aiuti internazionali e che sta affrontando forse il momento più destabilizzante dai tempi della crisi del Settembre Nero nel 1970, si tratta di accordi e concessioni di importanza vitale.  Secondo l’ONU, il totale dei rifugiati siriani arrivati in Giordania ammonta all’incirca a 650 mila unità a cui si devono aggiungere i palestinesi censiti dall’UNRWA (2 milioni) e gli iracheni (58 mila); considerando queste cifre in rapporto agli 8 milioni di abitanti giordani, il Regno risulta il primo Paese al mondo per rapporto tra popolazione autoctona e rifugiati.
Ma la strategia di Amman non ha tralasciato l’importanza di connettersi ai propri cugini sunniti, soprattutto in seguito alla caduta di Saddam nel 2003 e al venir meno delle vantaggiose importazioni petrolifere dal regime Ba’ath. Il Regno ha accettato così il corteggiamento da parte di Riyadh per entrare a far parte nel 2011, insieme al Marocco, del Consiglio di Cooperazione del Golfo. Il timore della casa dei Saud era che i potenziali effetti di destabilizzazione provocati dalla “Primavera araba” potessero rendere ancora più sfilacciato l’ordine sunnita sul Golfo lasciando spazio ad una maggiore influenza iraniana sulla monarchia hashemita e completando così un arco di controllo che da Teheran passa per Baghdad fino a Damasco e Beirut. Se per un verso questo avvicinamento alle petromonarchie ha assicurato benefici commerciali, per un altro ha creato numerosi imbarazzi come durante la crisi diplomatica con Doha nel 2014 o con l’inasprirsi della crisi yemenita che ha costretto il Re a dirottare risorse militari in quel teatro per obblighi di partenariato più che per esigenze strategiche. Quest’ultima decisione appare tanto più sofferta se osservata insieme all’avanzata dello Stato Islamico nella provincia sud-occidentale di Anbar, in Iraq, fattore che ha spinto il governo di Amman ad un riavvicinamento con Baghdad dopo le tensioni con il precedente gabinetto del Primo Ministro al-Maliki.

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Fig. 2 – Visita di Re Abdulllah a Riyadh nel novembre 2015

GLI EFFETTI DELLA PRIMAVERA ARABA – Nel 2011, con lo scoppio dei primi disordini civili nella città di Dar’a, la Giordania è rimasta coinvolta senza volerlo nella guerra civile siriana, diventando la meta principale di chi scappava.  Con la militarizzazione del conflitto, la nascita dello Stato Islamico, l’intervento occidentale e russo, il Paese è divenuto la valvola di sfogo delle pressioni migratorie verso le coste del Mediterraneo ed è stato costretto ad aprire altri campi profughi come quelli di Mragib al-Fahud, al-Azraq e Zaatari.  I dati dell’ONU citati in precedenza ci danno una vaga percezione di quanto la capacità di assorbimento dei rifugiati sia prossima al collasso, problematica che si salda con una serie di strutturate problematiche interne, come la scarsità di risorse idriche, che mettono in seria difficoltà il sistema economico giordano.
La guerra in Siria e Iraq ha infatti provocato una drastica diminuzione degli scambi commerciali, in particolare con la chiusura del valico di Gabar/Nasib che, secondo Nabil Rumman, Presidente della Commissione di Investitori della Giordania, ha fatto calare il volume degli scambi da 1.5 miliardi di dollari a soli 400 milioni nel 2014 e praticamente a zero nel 2015.  Le perdite per il settore pubblico e privato sarebbero pari quasi a 30 milioni di dollari al giorno.

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Fig. 3 – Rifugiati siriani nel campo profughi di Zaatari, nel nord della Giordania

Data questa situazione, in alcune città i canoni di affitto si sono triplicati, il sistema educativo e sanitario è sottoposto ad una crescente pressione, e la corruzione, wasta in arabo, un problema endemico della società giordana, provoca una continua contrazione della mobilità sociale esacerbando le divisioni inter-etniche e rinforzando i movimenti radicali, principalmente delle comunità di Ma’an (da cui proveniva Abu Musab al-Zarqawi), Zarqa e Salt, e la propaganda politica dei Fratelli Musulmani.  La società giordana è infatti tradizionalmente divisa in due macro-gruppi: da un lato i giordani nativi, facenti parte principalmente delle tribù della Transgiordania e integrati nel sistema istituzionali e di impiego pubblico, e dall’altro i west-bankers, i discendenti dei palestinesi della Cisgiordania inseriti nel tessuto imprenditoriale e artigiano privato.
Analizzato questo insieme articolato di problematiche, sembra sorprendente che la Primavera araba non abbia pressoché prodotto alcun effetto sismico significativo sulla monarchia hashemita. Una risposta significativa è stata data da Zayd Eyadat, direttore della School of International Studies di Amman, secondo il quale non si sono verificate conseguenze a lungo termine per motivi contingenti e strutturali.  Le dimostrazioni del 2011 provocarono quasi immediatamente lo scioglimento del Governo e la sostituzione del Primo Ministro e Sua Maestà ha timidamente accolto alcune delle richieste dei manifestanti promuovendo emendamenti costituzionali, la nascita di una Corte Costituzionale, il rafforzamento delle prerogative parlamentari e l’emanazione di alcune leggi sulla tutela dei diritti umani.  Queste riforme hanno evitato una pericolosa radicalizzazione della protesta e le forze moderate, interessate al mantenimento della stabilità interna, hanno prevalso, favorite anche dalla militarizzazione del conflitto siriano e dalla minaccia della guerra sui confini del Paese. Bisogna inoltre ricordare che, a differenza di quanto fatto nell’Egitto di Nasser e Sadat, la Giordania non ha mai dichiarato fuori legge il gruppo dei Fratelli Musulmani e ha resistito alle richieste dell’Arabia Saudita in tal senso. Il buon rapporto che intrattengono i leader della Fratellanza con l’establishment giordano ha fatto sì che fosse possibile stemperare i toni della propaganda rivoluzionaria dirottandoli su forme organizzate di opposizione (rappresentate dall’Islamic Action Front e dai movimenti sindacali come il Gruppo dei 36) facendo leva più sulle cause populiste dell’economia e della rappresentanza politica che su questioni ideologico-religiose. E questo è stato tanto più importante dopo la presa del potere di Mohammed Morsi nel 2012 in Egitto che avrebbe potuto provocare un pericoloso effetto contagio, evento superato dalla ben più lieta notizia per il Re del colpo di Stato di al-Sisi nel luglio 2013.

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Fig. 4 – Manifestazione dei Fratelli Musulmani ad Amman nel luglio 2015

Il secondo ordine di motivi che ha impedito la destabilizzazione della Giordania nel 2011 riguarda le caratteristiche socioculturali del Regno Hashemita. La società giordana, infatti, anche se apparentemente omogenea intorno ai caratteri del sunnismo, è come detto lacerata da una frattura tra giordani e west bankers e, soprattutto in questi ultimi, i ricordi della repressione del 1970 sono ancora impressi nella memoria. La monarchia è sempre stata ben attenta a non ricomporre questa frattura per poterla sfruttare nei momenti di necessità, come quando nel 2011 i west bankers non presero parte alle proteste per timore che la caduta del Re avrebbe messo a rischio la loro permanenza in Giordania.
Al contrario le critiche dei transgiordani, principalmente dei clan tribali, sono state trasversali e sembravano aver messo in crisi il rapporto con la monarchia, soprattutto a causa del rinvio sine die da parte del Governo dell’implementazione di riforme significative.
Questo fa capire quanto la morte del pilota ventiseienne al-Kasasbeh, membro dell’influente tribù dei Bararsheh, abbia catalizzato non solo il sentimento popolare ma anche l’unità politica del Paese.

GUERRA CONTRO LO STATO ISLAMICO – La struttura sociale della Giordania, oltre ad essere polarizzata in macro-gruppi, è più tribale che istituzionale. La barbara uccisione del giovane pilota da parte dello Stato Islamico ha avuto come effetto insperato quello di ricomporre il sodalizio tra Corona e tribù che hanno accolto con favore la dura reazione di Sua Maestà Abdullah II il quale è perfettamente conscio che la sua legittimità dipende dal supporto di queste tribù.  La dinastia hashemita è infatti nata come costola di un importante clan che fa parte di una tribù ancora oggi molto potente in Arabia Saudita, i Qureish. Inoltre la strategia della Corona, che necessitava non solo di legittimità ma soprattutto di lealtà, è stata fin dagli inizi quella di cooptare nelle Forze Armate e nei potentissimi apparati di sicurezza i membri di queste tribù, affidando poi a famiglie e parenti incarichi pubblici, impiegatizi e nella pubblica amministrazione. La sensibilità politica di Abdallah II a tale argomento è talmente alta che quando i transgiordani arrivarono a protestare fino alle vicinanze del Palazzo Reale, non venne dato nessun ordine di sgomberare l’area o reprimere il dissenso.

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Fig. 5 – La Regina Rania abbraccia la moglie di Mouaz al-Kasasbeh, il pilota giordano ucciso da ISIS nel gennaio 2015

Ma le parole del padre di al-Kasasbeh rivolte al Re (“Lei è un monarca saggio”) danno però il senso di un rinnovato sodalizio tra la famiglia reale e la sua spina dorsale politica garantita dalle tribù, tutti uniti nella lotta contro l’IS.
Da un punto di vista militare, a parte i bombardamenti di rappresaglia su Raqqa, la morte del giovane pilota non ha modificato l’impegno tattico reale della Giordania, ma ha senza dubbio catalizzato il sentimento popolare prima del tutto estraneo alla guerra. Tale cambiamento è importantissimo per la Corona che, acquisendo il ruolo di alleato affidabile agli occhi degli Stati Uniti e dell’Unione Europea, ha potuto sfruttare la situazione per chiedere un aumento degli aiuti economici.  Soprattutto da parte europea, il Re ha chiesto un maggiore impegno perché, in mancanza di una Giordania stabile, il flusso dei rifugiati finirebbe per spingere ulteriormente verso la rotta Mediterranea.
Sempre guardando agli sforzi nella lotta al terrorismo, un ultimo aspetto da esaminare è l’impegno della famiglia reale nel combattere l’ideologia radicale sul piano culturale. Dagli attentati dell’11 settembre 2001, Sua MaestĂ  si è impegnato profondamente nella promozione dei valori di tolleranza, rispetto, convivenza pacifica e ha concretizzato questo sforzo nell’Amman message, una piattaforma culturale composta da letterati, scrittori, studiosi, politici con l’obiettivo di demolire la propaganda del fondamentalismo. Questo impegno è particolarmente sentito dal Re il quale si è sempre rifiutato di chiamare “musulmani” i combattenti terroristi, identificandoli al contrario come kharigiti (fuorilegge).

Leonardo Palma

[box type=”shadow” align=”aligncenter” class=”” width=””]Un chicco in piĂą

Il Qatar, con l’appoggio di Stati Uniti e Arabia Saudita, continua a premere affinché la Giordania si riconcili con Hamas in modo da completare la scissione del movimento palestinese dal regime di Assad, una frattura fortemente voluta dalle monarchie sunnite anti-iraniane. La questione è però estremamente delicata, la componente transgiordana è infatti contraria ad una simile apertura che potrebbe segnare l’inizio di un accordo o di un accomodamento che renderebbe il Regno Hashemita casa definitiva dei rifugiati palestinesi.[/box]

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