Analisi – Il 13 ottobre le Autorità israeliane hanno ordinato alla popolazione a nord di Gaza di dirigersi a sud della Striscia a causa delle operazioni militari che si sarebbero verificate nell’area nord. Come si è evoluto lo scontro tra Hamas e Israele dopo il 7 ottobre e quali sono le conseguenze per i civili?
L’ESODO PALESTINESE
“Dovete evacuare immediatamente le vostre case e dirigervi a sud di Wadi Gaza”. Con queste parole, venerdì 13 ottobre le Autorità israeliane hanno ordinato alla popolazione residente a nord della Striscia di Gaza di evacuare il territorio e dirigersi a sud di Wadi Gaza, una riserva naturale che divide la parte nord dalla parte sud della Striscia (figura 1).
Dopo le operazioni di Hamas del 7 ottobre, Israele ha iniziato a bombardare l’area a nord di Gaza e non solo. Israele ha intensificato i bombardamenti sull’area di Gaza City e Gaza Sud che non è rimasta una “safe zone” per i civili come avrebbe dovuto. La mappa prodotta da ACLED (figura 2) mostra la localizzazione degli attacchi di Israele dal 7 al 18 ottobre con un numero di morti stimati pari a 3.785 di cui 1.524 bambini e mille donne (dati del Ministero della Sanità palestinese riportati da Reuters in 19 ottobre).
Il governatorato di Rafah e di Khan Yunis a sud, e quello di Dayr al-Balah nella regione centrale sono stati colpiti tra il 16 e il 17 ottobre, con circa 100 morti a Khan Yunis, tra i quali palestinesi evacuati dal nord della Striscia. I bombardamenti hanno colpito strutture civili e campi profughi, inclusa una scuola costruita dalle Nazioni Unite nel campo profughi di al-Maghazi. Uno dei comandanti militari di Hamas è rimasto ucciso il 16 ottobre nel campo profughi di Bureij (Gaza centrale).
Il 17 ottobre è stato colpito l’ospedale di al-Ahli a Gaza City, dove secondo le prime stime circa 470 palestinesi hanno perso la vita (dati da fonti palestinesi riprese da ACLED, ma Israele contesta tale numero sulla base delle immagini dei danni). Israele ha negato la responsabilità dell’accaduto, attribuendola a un razzo della Jihad Islamica Palestinese (Palestinian Islamic Jihad – PIJ) esploso in volo e i cui detriti e testata sarebbero poi caduti, nonostante l’ospedale avesse ricevuto già tre ordini di evacuazione da parte delle forze israeliane. Mentre alcuni esperti hanno suggerito che la mancanza di un cratere profondo e i danni limitati mostrati dalle immagini dell’esplosione nei pressi dell’ospedale potrebbe supportare le affermazioni di Israele, altri hanno invece suggerito come la tipologia dell’esplosione e dei danni non sia comunque compatibile con l’ordigno attribuito ad Hamas e PIJ. L’accaduto ha comunque smosso manifestazioni in tutta la regione, e il ritiro del Presidente palestinese Mahmoud Abbas dal vertice programmato ad Amman con il Re giordano Abdullah II, il Presidente Biden già in visita ad Israele, e il Presidente egiziano al-Sisi.
Facendo uno sforzo che superi la retorica di una comunicazione che favorisca l’una o l’altra parte e che non fa altro che rallentare un possibile processo di distensione, cerchiamo di analizzare i fatti sulla base del diritto internazionale e del diritto internazionale umanitario.
Fig. 1 – La mappa mostra la Striscia di Gaza e il limite di Wadi Gaza, oltre cui le autorità israeliane avevano chiesto ai civili di spostarsi venerdì 13 ottobre.
PERCHÉ SI È PARLATO DI PUNIZIONE COLLETTIVA?
Il diritto internazionale consente a Israele di rispondere per via militare all’aggressione di Hamas, tuttavia dovrebbe sempre discriminare tra bersagli legittimi (i miliziani) e non legittimi (edifici senza miliziani, civili innocenti). La particolare conformazione delle Striscia di Gaza (alta densità abitativa, con i miliziani capaci di sfruttare il terreno per nascondersi) rende difficile tale discriminazione e porta Israele a impiegare misure (blocco della Striscia e delle utilities) e bombardamenti più generalizzati, con conseguenti danni estesi, numerose vittime civili e scarsità di beni essenziali (acqua, elettricità, medicine).
L’articolo 51 della Carta delle Nazioni Unite prevede infatti il diritto alla legittima difesa. La legittima difesa può esercitarsi solo in caso di attacco armato in atto, sferrato da forze regolari attraverso una frontiera internazionale o attraverso l’invio di bande armate sul territorio di un altro Stato, quando tale operazione, per la sua ampiezza, configuri un’aggressione armata. L’azione militare deve inoltre rispettare i parametri della necessità e della proporzionalità. L’art. 51 della Carta dell’ONU e la corrispondente norma di diritto consuetudinario vietano pertanto un’occupazione militare prolungata e l’annessione del territorio dello Stato autore dell’attacco.
A seguito della risposta israeliana nella Striscia, un gruppo di esperti delle Nazioni Unite ha pertanto definito l’attacco come “punizione collettiva”. Definiamo punizione collettiva la punizione di un gruppo di una stessa etnia, religione o territorio sulla base di una presunta responsabilità collettiva dettata non da quello che realmente il gruppo ha compiuto ma dall’appartenenza ad uno stesso gruppo di individui che ha commesso un crimine.
Gli esperti delle Nazioni Unite hanno dichiarato: “This amounts to collective punishment. There is no justification for violence that indiscriminately targets innocent civilians, whether by Hamas or Israeli forces. This is absolutely prohibited under international law and amounts to a war crime.”
Secondo il diritto internazionale umanitario le punizioni collettive sono vietate per proteggere le persone in un determinato contesto dalle ritorsioni per azioni che non hanno personalmente commesso. Questo divieto viene fatto risalire alle Convenzioni dell’Aia del 1907 (incluse poi nel diritto internazionale consuetudinario e inquanto tali vincolanti anche per gli stati che non ne fanno parte). L’articolo 50 recita: “Nessuna sanzione generale, pecuniaria o di altro tipo, sarà inflitta ad una popolazione a causa di atti di individui per i quali la popolazione stessa non può essere considerata responsabile.” La Convenzione di Ginevra e i relativi Protocolli del 1977 rimarcano il concetto di punizione collettiva e ne estendono il significato. Nello specifico, l’articolo 33 della IV Convenzione di Ginevra, relativo alla protezione dei civili durante un conflitto, recita: “Nessuna persona protetta può essere punita per un’infrazione che non ha commesso personalmente. Le pene collettive, come pure qualsiasi misura d’intimidazione o di terrorismo, sono vietate. È proibito il saccheggio. Sono proibite le misure di rappresaglia nei confronti delle persone protette e dei loro beni”.
In questo caso Hamas, considerato movimento terroristico che ha perpetrato attacchi contro i civili israeliani, viene immediatamente associato a Gaza, luogo cui esso appartiene e che governa. Pertanto, la ritorsione e il tentativo di sconfiggere il movimento avvengono su tutto il territorio e i suoi abitanti, dove abitano circa 2 milioni di persone, inclusi civili, donne e bambini. Inoltre, il Comitato Internazionale della Croce Rossa sostiene come le istruzioni per l’evacuazione temporanea dei civili combinate con il continuo assedio (con bombardamenti anche nelle aree del percorso da nord a sud) non siano state compatibili con il diritto internazionale umanitario.
Fig. 2 – Attacchi di Israele nel territorio della Striscia di Gaza tra il 7 e il 18 ottobre. Fonte: ACLED
NON SOLO GAZA: LE MOSSE DI ISRAELE IN CISGIORDANIA
Anche la zona della Cisgiordania non è immune alla crisi che i territori palestinesi stanno attraversando. A partire da sabato 7 ottobre, inizio delle attuali ostilità tra Hamas e Israele, 64 palestinesi sono stati uccisi dalle forze di polizia israeliane e circa 1.100 sono rimasti feriti negli scontri. Al Jazeera descrive gli attacchi contro i palestinesi come casuali e contro civili non armati, sia da parte dei militari che da parte dei coloni israeliani presenti in Cisgiordania. Le ultime vicende sembrano aver mobilitato fortemente la popolazione in Cisgiordania che è scesa in piazza per chiedere le dimissioni del Presidente Abbas.
I territori della Cisgiordania si trovano sotto il controllo di Fatah dal 2007, quando il Presidente Mahmoud Abbas creò un Governo di emergenza e divise la gestione dei territori tra Hamas e Fatah che avrebbero rispettivamente controllato Gaza e Cisgiordania. Lo scorso giugno, Israele aveva approvato un piano di espansione abitativa (4.560 nuove abitazioni) nei territori occupati della Cisgiordania, considerati illegali dal diritto internazionale. Ad oggi, circa 750mila israeliani vivono in 250 insediamenti (considerati illegali) nei territori della Cisgiordania, occupati durante la guerra del 1967.
Già nel marzo del 2012 il Comitato delle Nazioni Unite per l’eliminazione della discriminazione razziale aveva fatto un passo senza precedenti annoverando Israele come responsabile di apartheid e di segregazione, vietate dall’articolo 3 della Convenzione Internazionale per l’eliminazione di tutte le forme di discriminazione raziale. Il Comitato espresse le sue preoccupazioni circa il trattamento ineguale tra la popolazione ebraica e quella palestinese nei territori palestinesi occupati. Constatazioni che rimasero senza conseguenze per Israele ma che non possono essere dimenticate nell’analisi delle vicende attuali.
Fig. 3 – Il grafico mostra il numero di persone uccise in Israele, Gaza e Cisgiordania dal 7 al 19 ottobre. Elaborato dall’autore sulla base dei dati rilasciati da Reuters
I FANTASMI DEL PASSATO
Dopo dieci giorni di isolamento, il 18 ottobre Israele ha annunciato l’ingresso dell’aiuto umanitario all’interno di Gaza dall’Egitto, a seguito anche delle pressioni dei sui alleati internazionali incluso il Presidente Biden. L’annuncio comunque aggiunge che nessun aiuto umanitario attraverserà il valico di Rafah fino a quando gli ostaggi israeliani non saranno liberati. Al Jazeera riporta che un convoglio di aiuti inviati da Turchia, Qatar ed Emirati Arabi Uniti è pronto al confine egiziano ma il blocco israeliano (di un confine in un Paese terzo) al momento non ne permette l’ingresso.
Inoltre, l’accesso di Rafah, bombardato da Israele, rappresenta ad oggi l’unica via di uscita dal sud di Gaza per i cittadini stranieri, i palestinesi in fuga dal conflitto e anche l’unica via di accesso dell’aiuto.
A questo si aggiungono le preoccupazioni egiziane di un esodo palestinese nel nord del Sinai. Il Presidente al-Sisi stesso aveva affermato che permettere un insediamento dei palestinesi nel Sinai equivarrebbe a lasciare il controllo della Striscia di Gaza ad Israele a scapito dei Paesi limitrofi, nonostante questo possa comportare ingenti incentivi economici da parte della comunità internazionale.
Un destino che si ripete, quello palestinese, e che ricorda la Nakba del 1948, quando lo stato di Israele venne creato, 15mila Palestinesi vennero uccisi e 750mila furono costretti ad abbandonare le proprie case. Al tempo stesso, come nota l’attivista per i diritti umani Daniel Seidmann, le storie delle donne israeliane che hanno dovuto coprire la voce dei loro bambini per non essere scoperti dai miliziani di Hamas durante le prime fasi del loro attacco ha ripetuto per molti l’immagine di quanto avvenuto durante l’Olocausto. Entrambi quindi temono di ripetere quelle che sono state le tragedie fondamentali della propria storia, un destino che potrebbe essere evitato se posizioni concilianti da entrambe le parti trovassero il proprio spazio oltre la resistenza violenta e la sicurezza della difesa nazionale.
“Israel will never be paradise if life in Gaza is hell” (Daniel Seidmann).
Altea Pericoli
Immagine di copertina: “Palestine solidarity protesters call for peace and an end to Israel’s occupation and Apartheid” by alisdare1 is licensed under CC BY-SA