Di land grabbing si parla da tempo: il fenomeno si caratterizza per l’acquisizione su grande scala di terre, in particolare nei Paesi in via di sviluppo. Ma cosa spinge gli Stati ad acquistare terre? E, dall’altro lato, per quali motivi vengono vendute?
da Santiago del Cile
CHI E PERCHÉ? – Finanza, petrolio, maquilas sono i settori più conosciuti per essere attività generatrici di ingenti profitti, in particolare per Governi e multinazionali disposti a investire, spesso senza grande considerazione per i diritti sociali o l’ambiente. Più recentemente, però, si è aggiunto un nuovo fenomeno a questa lista. Si tratta del land grabbing, titolo con cui si conosce la dinamica dell’accaparramento di terre. Viene spesso associato all’acquisizione di suoli ricchi di acqua o di minerali preziosi. I compratori vengono principalmente dai Paesi occidentali, nei quali operano anche multinazionali interessate ai margini di profitto che derivano dall’acquisto di terre produttive a basso costo. Per altri Paesi, come nel caso dei produttori di petrolio del Medio Oriente, l’obiettivo è assicurare il soddisfacimento delle necessità alimentari. In questo contesto, sono le popolazioni locali a pagare il prezzo più alto.
Il fenomeno non è del tutto nuovo, eppure ha subito una crescita esponenziale negli ultimi anni, associata alla crisi alimentare mondiale esplosa nel 2007 (sebbene i sintomi fossero precedenti). In questo senso, alcuni Governi hanno fiutato un pericolo alla propria sovranità alimentare e l’acquisizione di terre si è quindi convertita in un nuovo fenomeno, soppiantando, o per lo meno affiancando, le tradizionali attività che catalizzano gli interessi economici degli Stati, soprattutto quelle petrolifere. Nel 2007, inoltre, un’altra crisi si è affacciata sul contesto mondiale: quella finanziaria. Il settore finanziario ha dunque visto ridursi l’attenzione degli investitori, considerati i crescenti rischi e le maggiori regolamentazioni che si sarebbero dovute implementare. Molte multinazionali, nonché banche e fondi pensione, si sono orientate verso il land grabbing come una forma alternativa per differenziare i propri investimenti, soprattutto perché si tratta di un mercato con grandi margini di guadagno.
L’ESTENSIONE DEL FENOMENO – Un primo elemento da sottolineare è che allo stato attuale non esistono dati certi. Secondo un rapporto della Banca Mondiale, nel 2010 sono stati acquisiti da attori stranieri (pubblici o privati) 47 milioni di ettari. Per l’organizzazione Global Land Project si tratta invece di 63 milioni. In generale si stima che la superficie totale interessata oscillerebbe tra i 20 e i 60 milioni di ettari, con la metà nel solo continente africano. Le altre aree maggiormente interessate sono l’Asia sud-orientale e l’America Latina. I Paesi più colpiti sono Etiopia, Angola, Kenya, Sudan e altri, sempre nel continente nero: globalmente, solo l’Africa subsahariana concentra il 70% delle acquisizioni. Va detto che già oggi il land grabbing ha smesso di essere una dinamica marginale, in quanto si calcola che interessi l’1% delle terre coltivabili al mondo.
Considerando privati ed enti governativi, gli Stati più attivi nell’acquisizione delle terre sono la Gran Bretagna, gli Stati Uniti, la Cina e l’India. Le motivazioni sono sempre riconducibili a interessi economici, anche se comunque va fatta una distinzione. Da un lato, per certi Paesi del mondo sviluppato, soprattutto per quanto riguarda le strutture private, queste operazioni hanno una finalità speculativa. Le terre interessano per le potenzialità agricole, con un occhio spesso alla produzione di biocarburanti. Le ingenti prospettive di ritorni economici, unite ai bassi costi dei salari e delle terre stesse (in Etiopia il costo di un ettaro di terreno è attorno ai 5-10 dollari, ma può scendere anche a un solo dollaro in Perù) hanno motivato all’acquisto non solo Governi, ma anche note società finanziarie come J.P. Morgan e Goldman Sachs. Dall’altro lato, gli investimenti in terre interessano alcuni Paesi che tentano di fronteggiare le minacce derivanti dalle crisi alimentari. È il caso di molti paesi desertici del Medio Oriente, in particolare i produttori di petrolio come Arabia Saudita, Qatar e Bahrein, che investono nelle terre fertili africane, e di Paesi come Cina e India che vedono le proprie necessità alimentari aumentare con la crescente popolazione. Le acquisizioni a finalità agricola e quelle destinate a biofuel rappresentano rispettivamente il 37% e il 26% del totale secondo il Global Land Project. Gli investimenti speculativi occupano un’altra parte importante della torta, mentre un denominatore comune è rappresentato comunque dall’accesso alle risorse idriche che accompagnano l’acquisto di questi territori.
LE MOTIVAZIONI – I Governi che vendono le loro terre giustificano la scelta in termini economici e di sviluppo, nonostante le somme irrisorie con le quali vengono spesso cedute ampie porzioni di territori (l’Etiopia da sola, nel 2007, ha approvato 815 progetti di sfruttamento agricolo a stranieri). In effetti, essi sostengono che l’attribuzione di terre a gestori stranieri permette di accrescerne il valore, aumentarne la produttività e generare impiego. A volte il sistema messo in atto prevede anche la costruzione di infrastrutture, come strade, scuole o ospedali che hanno la funzione d’integrare le popolazioni del luogo, incluse a loro insaputa nell’accordo. Se pensiamo ad esempio alla situazione africana, l’80% degli abitanti si basa su un’economia rurale a carattere familiare. La vendita delle terre mette in pericolo questa relazione secolare delle comunità col territorio, gettando l’agricoltore, una volta autonomo, in una spirale di povertà. Oltretutto, è sempre maggiore il numero delle persone che devono (per scelta o per costrizione) abbandonare i propri luoghi di residenza.
Organizzazioni come GRAIN e Vida Campesina denunciano infatti l’assenza di trasparenza che caratterizza questi processi, attuati spesso con il beneplacito delle organizzazioni internazionali, dal Fondo Internazionale di Sviluppo Agricolo (IFAD), all’Organizzazione dell’ONU per l’Agricoltura e l’Alimentazione (FAO), sostenitori dell’idea di progresso associato all’utilizzo delle terre da parte di mani straniere come una strategia per affrontare il problema della fame nel mondo, che oggi colpisce quasi un miliardo di persone. L’informazione per le comunità locali è scarsa e spesso assente, mentre poco o nessuno spazio viene lasciato all’analisi delle conseguenze negative. Le critiche al land grabbing considerano inoltre altri aspetti come la deforestazione e l’inquinamento, che di frequente accompagnano l’insediamento di grandi coltivazioni a carattere intensivo e industrializzato. L’assenza di legislazioni chiare o di meccanismi di controllo efficienti nei Paesi bersaglio del fenomeno lascia campo libero alle pratiche abusive in termini ambientali (come l’uso di pesticidi particolarmente inquinanti) o sociali e lavorativi, visto che le remunerazioni delle popolazioni locali che vengono impiegate nei campi non superano spesso i due dollari il giorno.
In questa mappa ecco alcuni dati relativi al fenomeno globale del land grabbing
UN’AREA GRIGIA – Regolamentare è la chiave per cercare di limitare gli effetti negativi di questo fenomeno. Solamente alcuni Paesi, il Brasile e l’Argentina, hanno mostrato intraprendenza varando in tempi recenti provvedimenti che limitano l’accesso alla proprietà per gli stranieri. In questo senso la maggior parte degli Stati africani dispone di leggi che non consentono la vendita dei terreni a carattere pubblico. La normativa viene però aggirata da contratti di affitto di una durata che può essere anche di novantanove anni.
Le Nazioni Unite sono coscienti che queste pratiche violano i principi generali di diritto su cui si basano convenzioni e protocolli internazionali fondamentali sui diritti umani, così come quelle sui diritti economici, sociali e culturali. Per tale ragione sono state lanciate alcune iniziative (Principi di Investimento Responsabile da parte della Banca Mondiale o Villaggi del Millennio dell’ONU) che puntano a migliorare l’impatto locale provocato del land grabbing.
I risultati di queste azioni sono però ancora da valutare. Intanto, alcune organizzazioni critiche non esitano a definire il land grabbing come una nuova forma di neocolonialismo. Sarà importante mantenere alta l’attenzione, perché tale fenomeno non si trasformi in una nuova forma di sfruttamento e non precluda lo sviluppo economico e sociale delle popolazioni coinvolte.
Gilles Cavaletto