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Perchè la lotta alla povertà estrema passa dagli “Stati fragili”

In 3 SorsiNegli ultimi 25 anni le persone che vivono con meno di 2 dollari al giorno sono più che dimezzate e continueranno a scendere nei prossimi anni. Tuttavia, se davvero vogliamo eradicare la povertá estrema nel 2030 dobbiamo iniziare a occuparci seriamente dei cosidetti Stati fragili.

1. DOVE ERAVAMO E DOVE SIAMO

Venticinque anni possono sembrare un’eternità, in particolare se pensiamo ai cambiamenti che sono intercorsi nell’ultimo quarto di secolo. Tuttavia sono un arco temporale decisamente ristretto al quale la maggior parte di noi può facilmente relazionarsi. Ebbene, in soli 25 anni l’umanità ha compiuto il più incredibile dei balzi in avanti, e non stiamo parlando di un boom tecnologico o economico, ma di sviluppo umano. Tra il 1990 e il 2015, infatti, il numero assoluto di persone in povertà estrema (ovvero quelle che vivono sotto i 2 dollari al giorno) è più che dimezzato, passando da circa 2 miliardi di persone a circa 700 milioni, pari a circa il 10% della popolazione (fonte Banca Mondiale). Stiamo ancora parlando di un numero esageratamente alto e assolutamente inaccettabile, ma il progresso è indubbio, specialmente se consideriamo che ancora negli anni Ottanta questa percentuale superava abbondantemente il 40% della popolazione globale. Tutto bene dunque? Non proprio. Sebbene i 193 Stati membri delle Nazioni Unite abbiano sottoscritto, nel 2015, la cosiddetta Agenda 2030, che li impegna, fra le altre cose, a eradicare la povertà estrema entro il 2030, il raggiungimento di questo obiettivo sembra proibitivo, a meno di significative correzioni di rotta. 

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Fig. 1 – Christine Lagarde, Direttore Generale del Fondo Monetario Internazionale

2. L’URGENZA DI UN PIANO PER GLI STATI FRAGILI

Le recenti proiezioni indicano che, ai ritmi di crescita attuali, circa 400 milioni di persone vivranno ancora in povertà estrema nel 2030. Inoltre sappiamo che queste persone saranno estremamente concentrate geograficamente, in quanto oltre l’85% di esse vivrà in Stati fragili in Africa subsahariana, di cui il 40% nelle sole Nigeria e Repubblica Democratica del Congo. Pur non esistendo una definizione comune, possiamo descrivere gli Stati fragili come quelli dove è totalmente o parzialmente assente un contratto sociale tra la popolazione e le Autorità, ovvero dove manca un minimo assetto istituzionale legittimo e dove è quasi impossibile implementare in maniera consistente politiche sociali in campi essenziali quali sanità ed educazione. Queste problematiche esacerbano il rischio di instabilità e violenza e minano ogni possibilità di sviluppo inclusivo. Già nel 2011 la comunità interazionale aveva riconosciuto il problema e aveva sottoscritto un new deal sugli Stati fragili, che è però rimasto prevalentemente lettera morta per mancanza di volontà politica. Seri ed efficaci interventi di aiuto allo sviluppo richiederebbero investimenti ingenti e una volontà di rischiare che i principali donatori (con gli Stati Uniti e l’UE in testa) attualmente non sono interessati a correre, preferendo spendere in Paesi dove il loro interesse nazionale è più marcato. Buoni segnali stanno arrivando da Istituzioni internazionali come la Banca Mondiale e il Fondo Monetario Internazionale, che si sono entrambe indirizzate a un impegno più consistente negli Stati fragili, ma la strada da fare resta lunga.

3. DA DOVE INIZIARE

Se siamo realmente decisi a perseguire gli obiettivi dell’Agenda 2030, un’attenzione maggiori agli Stati fragili risulta ineluttabile. Tre principi fondamentali dovranno guidare le azioni della comunità internazionale:

  • Sarà fondamentale allineare la politica diplomatica, di difesa e di cooperazione allo sviluppo (le famose 3 Ds: Diplomacy, Defence and Development). Un maggiore coordinamento tra i vari attori presenti sul campo diventa essenziale per massimizzare l’impatto di tutti gli interventi. Il già citato new deal del 2011 fallì principalmente per la mancanza di un approccio olistico alla questione degli Stati fragili.
  • Lavorare sulla prevenzione farà la differenza. Un recente studio congiunto dell’ONU e della Banca Mondiale ha quantificato tra i 5 e i 70 miliardi di dollari il risparmio garantito da efficaci misure preventive per evitare crisi e promuovere la pace. Questi soldi potrebbero poi essere investiti in settori chiave come la sanità e la spesa sociale.
  • Il coinvolgimento degli attori locali diverrà imprescindibile. Partendo dal presupposto che non sarà mai possibile conoscere appieno il Paese dove si interviene, sappiamo che un approccio “dall’alto” non ha funzionato in passato e difficilmente potrà farlo in futuro. Successi duraturi saranno possibili solo con un coinvolgimento totale fra gli attori locali (sia società civile che settore privato) e le Istituzioni internazionali. Tutti gli interventi dovranno essere adattati al contesto locale e strutturati per rispondere ai bisogni reali della popolazione.

Questi sono solo alcuni degli spunti che dovranno essere tenuti a mente nei prossimi anni, ma altri prinicipi qui non citati sono parimente importanti. Quello che è certo è che non possiamo ritenere il progresso nella lotta alla povertá estrema degli ultimi decenni né scontato né irreversibile e sarebbe imperdonabile, oltre che moralmente inaccettabile, fermarsi proprio ora.

Lorenzo De Santis

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Lorenzo De Santis
Lorenzo De Santis

Appassionato da sempre in tematiche internazionali e di cooperazione allo sviluppo, mi sono laureato in relazioni internazionali nel 2014 con una tesi sugli accordi multilaterali sulla lotta ai i cambiamenti climatici. Ho lavorato presso il Dipartimento britannico della cooperazione internazionale (DFID) e con il think tank Overseas Development Institute (ODI) a Londra, dove risiedo tuttora.

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