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Gestire l’immigrazione in Italia? Servono politiche razionali

Il tema dell’immigrazione monopolizza spesso il dibattito pubblico in Italia, quasi sempre con toni esagerati e termini inesatti. Andrea T. Torre, direttore del Centro Studi Medì di Genova e membro del nostro comitato scientifico, presenta alcune proposte per governare meglio il fenomeno in questo editoriale per il Caffè.

USIAMO I TERMINI CORRETTI

Il recente varo del nuovo Governo ha spinto molti osservatori ed esperti a caldeggiare (o temere) nuove politiche dell’immigrazione. Quel che accomuna la maggior parte di questi interventi, però, è il concentrarsi sul tema dei “migranti”, identificati – per trionfante senso comune – con chi arriva via mare dal Sud del Mediterraneo, come il principale item dell’agenda delle politiche migratorie auspicate (o temute). Ritengo questa una visione molto parziale della questione migratoria che rischia di non cogliere i punti centrali di necessarie politiche “razionali” che abbiano uno sguardo di piĂą di ampio respiro.
Cominciamo dall’uso dei termini, che – come ben si sa – sono importanti. Il termine “migranti”, come detto, ha ormai assunto una sua automatica identificazione con coloro che in questi anni sono arrivati in Italia dal Sud del Mediterraneo o, in misura minore, dalla rotta balcanica. Poco importa se, in realtĂ , la definizione si attagli a tutti coloro che vivono al di fuori del proprio Paese non per motivi di turismo. Proprio a scanso di equivoci, per non “mischiare” le categorie, abbiamo coniato, per i giovani italiani che in numero sempre maggiore si recano all’estero il termine di “espatriati” o “expat“: in realtĂ  sono entrambi, tecnicamente, migranti, così come lo sono coloro che arrivano per ricongiungimento famigliare, per motivi di studio, di culto e di lavoro e che, per inciso, sono ancora la maggioranza di coloro che entrano in Italia non per motivi di turismo.

TRA REALTĂ€ E PERCEZIONE

Un secondo aspetto riguarda la persistenza con cui la tematica migranti (nell’accezione di cui sopra) occupa i mezzi di comunicazione. Non importa se il numero di persone che sono arrivate dal Nord Africa sia ormai ad un livello fisiologico (poco meno di 7mila nei primi nove mesi dell’anno), quello che conta è mantenere un livello di potenziale invasione percepita sempre alto. In questo senso le considerazioni che si devono fare sono le seguenti:

  1. Non c’è mai stata alcuna invasione, ma un aumento sensibile di arrivi via mare tra il 2014 e il 2017 dovuto in gran parte alla dissoluzione dell’apparato statale libico. Nessun “mutamento epocale” quindi.
  2. Il calo degli arrivi dalla Libia parte dal luglio 2017 ed è sempre stato costante.
  3. Questo calo è solo parzialmente dovuto agli accordi Italia-Libia e piĂą decisamente alle politiche che l’UE ha concordato con il Niger, da dove le persone partono in misura assai ridotta dall’entrata in vigore della legge che “criminalizza” il trasporto di persone, legge approvata nel 2015 ma di fatto attuata solo nella seconda parte del 2016.
  4. Nell’ultimo anno, basta guardare le nazionalitĂ  degli sbarcati, la maggior parte delle persone sono di cittadinanza tunisina, cosa che dovrebbe decisamente convincere l’UE ad uno sforzo di aiuti e sostegno verso l’unico Paese del Nord Africa che ha avuto una transizione democratica, ma che ha un’economia molto fragile.
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Fig. 1 – La nave Ocean Viking della ONG SOS Mediterranee nel porto di Messina

LE LEGGI SUGLI INGRESSI PER LAVORO

Terza questione, l’immigrazione in Italia è cresciuta moderatamente – nonostante il feticcio degli sbarchi negli ultimi 5 anni. Il periodo in cui è cresciuta prepotentemente è stato il decennio 2001-2011 (+ 197%), mentre, come detto, dal 2011 ad oggi l’incremento è stato solo del 9,7%.
Torniamo quindi alle politiche. Spesso si paventano politiche dell’immigrazione lassiste o permissive. Semmai l’Italia ha avuto da sempre politiche restrittive. Da sempre. Nel caso degli ingressi per motivi di lavoro – che sono il cardine della legislazione dell’immigrazione italiana dal testo unico 286/98 – il dato è palese. Giova sempre ricordare che gli ingressi per motivi di lavoro sono attivati da un datore di lavoro che assume uno straniero e per questo motivo ne richiede l’ingresso in Italia. Questo avviene con quote annuali che il Governo stabilisce con un decreto flussi ad inizio anno. Orbene questo decreto flussi dal 2013 prevede possibilitĂ  di ingresso annue per poco piĂą di 30mila persone, di cui una parte consistente (negli ultimi anni quasi il 60%) per lavoro stagionale. Ricordo che nel solo 2007, per esempio, erano stati rilasciati 220mila visti di ingresso per motivi di lavoro. Le quote di ingresso sono poi ulteriormente suddivise tra Paesi di origine, per cui le possibilitĂ  di utilizzo dello strumento principe di ingresso regolare sono davvero residuali. Ci sono due considerazioni ulteriori da fare: come apparirĂ  abbastanza logico essendo ancora oggi il contesto lavorativo occupato dagli immigrati quello piĂą basso nella catena globale del valore, le persone per cui si chiede un ingresso “virtuale” sono in massima parte giĂ  presenti in Italia, in larga parte overstayers in possesso di visti turistici scaduti. Quindi si trattava di sommersi processi permanenti di regolarizzazione che andavano a ridurre il numero degli irregolari, che non a caso negli ultimi anni è cresciuto. Secondo aspetto, aldilĂ  dei casi di assunzioni fittizie, la stragrande maggioranza degli ingressi per motivi di lavoro, entrando o “riemergendo” con un reddito, non necessitano di particolari ed “intense” politiche di sostegno e, quindi, non sono soggetti bisognosi di accoglienza, se non dei servizi di welfare territoriale al quale qualsiasi cittadino può ricorrere abitualmente.

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Fig. 2 – Riformare la disciplina sui visti di ingresso per motivi di lavoro potrebbe ridurre l’immigrazione irregolare

DA DOVE COMINCIARE?

Questo è solo un primo punto da attuare rapidamente, poichĂ© richiederebbe solo un intervento per decreto, ma avrebbe certamente anche l’effetto di non costringere persone che vogliono venire in Italia (o che vi sono anche da tempo) a inserirsi artatamente nel canale della Protezione Internazionale. Di certo però questo non è sufficiente. Quali potrebbero essere allora le altre prioritĂ ? Elenchiamone alcune:

  1. Rivedere il Testo Unico del 1998, che avendo oltre vent’anni risente appunto dello scenario in cui è stato generato. Allora risiedeva in Italia un milione di cittadini stranieri, mentre ora sono oltre 5 milioni e 700 mila, di cui un milione nati in Italia (cioè non migranti), oltre ad un altro milione di persone che, nel frattempo, sono diventate italiane dopo aver acquisito la cittadinanza “elettiva”, in quanto residenti continuativi da oltre 10 anni.
  2. La revisione del testo organico richiederebbe anche la revisione dell’apparato dello Stato che si occupa della questione. Appare quanto mai necessaria la creazione – tardiva – di competenze specifiche nella Pubblica Amministrazione che svincolino la gestione dell’Immigrazione “ordinaria” dal Ministero degli Interni se non per i necessari passaggi e vincoli legati alla sicurezza e all’ordine pubblico. Ci si domanda perchĂ©, ancora oggi, chi deve rinnovare un permesso di soggiorno debba ancora andare in Questura (ce n’è una per Provincia) e non possa, invece, fare queste pratiche negli uffici del Comune di residenza? La necessitĂ  di formare una nuova generazione di funzionari pubblici competenti è stata ampiamente evidenziata anche dalle gestioni delle “emergenze” da parte delle Prefetture, che non sono state generalmente all’altezza della situazione. D’altro canto basterebbe analizzare i percorsi e le competenze di funzionari che si erano sempre occupati di altro ed improvvisamente sono stati catapultati, senza loro colpa, a gestire emergenze per cui non avevano, come detto, avuto nessuna formazione specifica.
  3. Il diritto di voto amministrativo. Può sembrare quasi una provocazione, ma invece dovrebbe essere una delle prime cose da realizzare. Non si capisce perchĂ© ancora oggi cittadini residenti nelle cittĂ  italiane da decenni non possano eleggere il loro Sindaco, mentre in nome dello jus sanguinis consentiamo di eleggere dei deputati a cittadini italiani mai stati nel nostro Paese (in molti casi acquisiscono la cittadinanza italiana per avere un passaporto che consenta loro di muoversi per il mondo piĂą agevolmente). Non si tratta di una politica di sinistra, perchĂ© risponde ad uno dei classici motti liberali “not taxation without representation”, e neppure si tratterebbe di un’azione di cui beneficerebbero i partiti di sinistra, poichĂ© le tendenze dei cittadini stranieri residenti sono davvero variegate (come evidenziano alcuni studi che le hanno sondate).

Ovviamente questi sono solo alcuni spunti e riguardano alcuni temi specifici della presenza straniera nel nostro Paese. Una gran parte di politiche pubbliche “indistinte” ormai toccano la loro presenza, che come abbiamo visto è davvero molto rilevante. I punti che ho provato a evidenziare, però, sono aspetti che poco sono presenti nel discorso pubblico, che è monopolizzato dai temi degli sbarchi e della riforma del Regolamento di Dublino, temi attuali, ma, come ho provato ad argomentare, non certo focali per la loro rilevanza reale, quanto per l’impatto mediatico. 

Andrea T. Torre
Direttore del Centro Studi Medì – Migrazioni nel Mediterraneo
Membro del comitato scientifico del Caffè Geopolitico

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