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L’orrore di Nanchino tra Cina e Giappone

Ristretto13 dicembre 1937: la cittĂ  di Nanchino, capitale della Repubblica di Cina, cade nelle mani delle truppe giapponesi. Nelle settimane successive queste ultime compiono massacri e violenze terribili contro la popolazione locale, infliggendo una ferita non ancora rimarginata ai mai facili rapporti tra i due Paesi asiatici.

Dopo lo scoppio della seconda guerra sino-giapponese nel luglio 1937, le forze nipponiche limitano principalmente le proprie operazioni alla regione di Pechino e alle aree costiere, nella speranza di arrivare presto a una pace favorevole con Chiang Kai-shek. A fine novembre, però, la conquista di Shanghai incoraggia l’Esercito Imperiale a lanciare una vasta offensiva contro Nanchino, capitale della Repubblica cinese, con l’obiettivo di costringere il Governo di Chiang alla resa. Guidate dal generale Iwane Matsui, le truppe giapponesi conducono una rapida marcia lungo la valle dello Yangtze, ma incontrano poi una dura resistenza sulla Linea Fukuo, situata a ridosso delle antiche mura costruite dai Ming a difesa della città. Chiang ha infatti deciso di difendere la capitale a qualsiasi costo, ignorando il parere contrario dei suoi consiglieri militari, e ha creato un complesso sistema di trincee, casematte e campi minati per respingere l’assalto nemico. Inizialmente Matsui vorrebbe una resa pacifica di Nanchino e cerca di intavolare negoziati con il generale Tang Shenzi, responsabile della difesa cittadina, che però rifiuta. A quel punto il comandante giapponese ordina un assalto generale delle proprie forze contro la città: i combattimenti sono ferocissimi, soprattutto sul monte Zijinshan (sede del mausoleo di Sun Yat-sen) e nei pressi delle porte di ingresso cittadine, ma le truppe nipponiche hanno gradualmente la meglio su quelle avversarie, spesso male organizzate e male equipaggiate. Dopo due giorni di battaglia, la difesa cinese è sul punto di crollare e Chiang – riparato insieme al resto del Governo a Chongqing – ordina a Tang di abbandonare la città, ma la guarnigione è ormai accerchiata e viene di fatto massacrata dai giapponesi. Solo poche unità riescono ad attraversare lo Yangtze e a mettersi in salvo, talvolta a scapito dei civili che cercano disperatamente di fuggire dalla città in fiamme. Il 13 dicembre Nanchino è completamente nelle mani dei soldati di Matsui.

Da quel momento inizia una mattanza terribile, condotta spietatamente dalle truppe nipponiche sia contro la popolazione civile che i militari cinesi catturati. Per sei settimane si succedono stupri, esecuzioni, torture e violenze di ogni genere, a dispetto delle proteste dei diplomatici stranieri presenti in città e del tentativo di creare una zona di protezione internazionale per i civili nell’area. Le cifre sono ancora oggi discordanti, anche per via della sistematica distruzione della documentazione militare giapponese nel 1945, ma quelle più attendibili si aggirano intorno alle 300mila vittime. Solo l’impegno di diversi residenti occidentali, come il tedesco John Rabe e il danese Bernhard Arp Sindberg, impedirà un bilancio ancora peggiore, salvando la vita a centinaia di persone.  Nel 1948 molte di loro invieranno soldi e viveri in Germania a sostegno della famiglia Rabe, ridotta in miseria, accompagnandoli spesso con lettere piene di gratitudine per l’aiuto ricevuto.

Dopo la seconda guerra mondiale, Matsui viene condannato a morte per crimini di guerra, ma il sospetto è che il verdetto copra le responsabilità più gravi del principe Asaka, suo superiore e zio dell’Imperatore Hirohito. Entrato con forza nella coscienza nazionale cinese, oggi il ricordo del massacro di Nanchino continua ad alimentare dure polemiche politiche tra Pechino e Tokyo, contribuendo alla loro crescente rivalità geopolitica e economica. Nel 1995 il Premier Murayama e l’Imperatore Akihito hanno espresso un generico rincrescimento per le violenze e le distruzioni provocate dalle guerre espansioniste giapponesi in Asia, ma il gesto è stato giudicato insufficiente dalle autorità cinesi. Inoltre molti politici giapponesi, soprattutto membri del Partito LiberalDemocratico (LDP) attualmente al potere, continuano a negare l’evidenza del massacro, parlando di “fabbricazione” politica o minimizzando il numero finale delle vittime.

Simone Pelizza

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Simone Pelizzahttp://independent.academia.edu/simonepelizza

Piemontese doc, mi sono laureato in Storia all’Università Cattolica di Milano e ho poi proseguito gli studi in Gran Bretagna. Dal 2014 faccio parte de Il Caffè Geopolitico dove mi occupo principalmente di Asia e Russia, aree al centro dei miei interessi da diversi anni.
Nel tempo libero leggo, bevo caffè (ovviamente) e faccio lunghe passeggiate. Sogno di andare in Giappone e spero di realizzare presto tale proposito. Nel frattempo ho avuto modo di conoscere e apprezzare la Cina, che ho visitato negli anni scorsi per lavoro.

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