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Brasile: i dribbling di Dilma verso il Mondiale

L’inizio del mese di giugno è stato un momento particolarmente caldo dal punto di vista sociale in diversi Paesi. Abbiamo assistito ai moti di Gezi Park in Turchia, alle meno rumorose proteste dei bulgari contro la corruzione governativa, alla situazione che precipitava in Egitto. Ma forse quello che è successo in Brasile ha colpito di più, per la novità delle proteste.

 

LA CONFEDERATIONS CUP E LA PROTESTA – Durante il torneo della Confederations Cup, quando i beniamini del dio pallone esibivano i garretti come gli atleti di Olimpia, siamo stati raggiunti da immagini impreviste e imprevedibili provenienti dal Brasile. Come mai un Paese che sta vivendo da anni uno sviluppo economico così profondo e duraturo si solleva in massa per protestare contro il Governo? Cosa sta succedendo dalle parti di Rio de Janeiro?

Quel che ha raccontato “Folha de Sao Paulo” , il principale quotidiano brasiliano, sono scene già viste che ci fanno propendere a sentimento in favore delle solite giuste richieste e contro le consuete cattive maniere. Non ci si può schierare in favore dei violenti, di chi mette a ferro e fuoco una città, neanche se le rivendicazioni sono animate da motivi più che legittimi. Come di consueto, pochi facinorosi hanno rovinato quello che in molti cercavano di gridare al mondo intero.

 

LA PROTESTA PER I SERVIZI – La protesta è nata, secondo il principale gruppo radiotelevisivo del Paese, “O Globo”, perché a São Paulo era aumentato il prezzo dei trasporti pubblici. A questa ragione si è aggiunta poi l’endemica corruzione a ogni livello di governo, su cui si è innestata la penuria di servizi sanitari e lo sconcerto per i 14 miliardi di dollari spesi fino a ora per i Mondiali di calcio del prossimo anno, così come la somma non ancora precisata per le Olimpiadi del 2016. La contabilità delle grandi opere è diventata, quindi, il cavallo di Troia della protesta, che ha assunto parecchie particolarità. A luglio e fino a metà agosto i disordini sono poi diminuiti naturalmente, ma, improvvisamente, da Ferragosto le notizie di fermento sociale sono tornate prepotentemente di attualità. A Bahia la protesta dei “sem terra” a inizio settembre (contro i quali, addirittura, Ari Pereira,  vice ministro  della Sicurezza Pubblica nello Stato di Bahia, peraltro del partito governativo di sinistra Partido dos Trabalhadores, aprì il fuoco), dopo che a Rio e São Paulo avevamo assistito a sollevazioni contro i Governi regionali e la polizia aveva usato il pugno di ferro. Neanche la visita di papa Francesco è stata immune da potenziali rischi; gli investigatori hanno rinvenuto un ordigno artigianale pronto a esplodere nell’ultima settimana del mese di luglio.

 

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Dilma e Pelé

UNA NUOVA FORMA DI PROTESTA – Va notato innanzitutto che chi protesta è un soggetto nuovo, che nasce dopo il crollo del muro di Berlino e l’implosione del mondo come lo conoscevamo dai manuali di relazioni internazionali “classici”, quando l’antagonismo e la protesta offrivano una versione cruenta, poi ripudiata, al meeting del WTO di Seattle del 1999 e prendevano coscienza di sé poco dopo.

Questa nuova categoria sociologica non sarebbe sfuggita a Max Weber, né a Duverger: un’entità fatta di tante sfaccettature coinvolge la classe media brasiliana di oggi, che è colta, guadagna e non è legata al mondo della proprietà, né al commercio, come invece la borghesia gattopardesca dell’Ottocento; non usa le tecnologie, ma ne è parte; è radicata sul territorio e al contrario di quello che facevano i nostri nonni non emigra. La “Primavera araba” del 2011 viene da qui, anche se poi ha cambiato strada imboccando un sentiero a più forte connotazione religiosa e identitaria.

 

IL CASO BRASILIANO – E il Brasile? In realtà oggi è un Paese sostanzialmente fermo. L’economia non “tira” più come prima e chi protesta è colui che è rimasto indietro nel godere i frutti della crescita, i sem terra, la gente delle favelas. Ma non sono soli: il ceto medio non è contento perché la crescita ha portato inflazione e ora i prezzi non sono mai stati così alti (complice anche una forte rivalutazione del real sul mercato valutario internazionale). Il project financing sta funzionando per costruire opere pubbliche, ma non per condividerne a cascata i benefici. E così si taglia sui servizi, la scuola innanzitutto. Il ministro della Giustizia, José Eduardo Cardozo, è stato costretto a varare un piano d’emergenza. A Brasilia, a fine giugno, due ministeri sono stati evacuati per allarmi bomba. La violenza ha assunto una pericolosa escalation, ma la situazione non è degenerata.

Lo scontento non cede al terrorismo, però alza la voce, incurante delle accuse di giacobinismo. Sa pazientare e sa scegliere il momento giusto, come dimostra il fatto che la sollevazione, partita da sud, si è poi espansa fino allo Stato del Ceará, a nord-est. E in mondovisione, per avere maggiore risonanza. Violenti scontri si sono verificati il Giorno dell’Indipendenza a Brasilia, prima dell’amichevole con l’Australia; le cifre ufficiali parlano di un milione di persone coinvolte.  La protesta ha chiamato a raccolta tramite social network e, nelle interviste, non ha semplicemente espresso vuote rivendicazioni libertarie, ma ha evidenziato il contrasto tra gli ospedali che mancano e i soldi spesi per gli stadi. L’innovazione c’è stata anche dal punto di vista della comunicazione. I disordini del Brasile sono sostanzialmente diversi da quello che sta accadendo oggi nel mondo. Sono tendenzialmente a sfondo economico e non mirano a chiedere più soldi o più regali: vogliono maggiore equità, vogliono sapere dove finiscono tutti i miliardi di reais spesi per costruirsi una reputazione da “grande Paese”. La corruzione è ancora un problema enorme e i brasiliani non possono più sopportarla. Particolarmente preso di mira, per la sua propensione a muoversi in elicottero, per esempio, è il Governatore dello Stato di Rio de Janeiro, Sérgio Cabral Filho.

 

IL BRASILE E GEZI PARK – Anche questo in Brasile è stato diverso. Il canovaccio avrebbe potuto svilupparsi come a Istanbul. Invece no. Gli aumenti del prezzo dei biglietti, falsa miccia di un falso incendio, sono stati ritirati. Per dare un segnale forte e immediato sono stati stanziati subito fondi per assumere ben diecimila medici da destinare soprattutto agli Stati più poveri. I manifestanti, insomma, forse non hanno perso. Il dato politico più interessante è stato il comportamento del presidente federale Dilma Rousseff. La sessantaseienne ha colto l’occasione, dimostrando di occupare in maniera efficace la posizione che il suo mentore, Luiz Inácio da Silva, detto Lula, le ha (saggiamente) offerto nel 2011. Il Brasile stava vivendo una fase politica di stallo. Con dati sulla crescita per la prima volta nell’ultimo lustro sostanzialmente fermi, forte dei successi conseguiti nei processi di alfabetizzazione e assistenza sanitaria dal precedente Governo. D’altronde la situazione era veramente eccezionale: un tale coinvolgimento di popolo non si vedeva dal 1992, dalle proteste contro il regime corrotto di Fernando Collor de Mello, capo dello Stato poi costretto a dimettersi.

 

Dilma sembra 'scrutare' in direzione del proprio orizzonte politico
Dilma sembra ‘scrutare’ in direzione del proprio orizzonte politico

L’INTERVENTO DI DILMA – Dilma Rousseff era stretta nella morsa del Partido dos Trabalhadores, il proprio partito. La spinta riformista aveva perso propulsione e ormai Dilma era ostaggio dell’alleanza più consueta in America Latina, quella tra la borghesia classica (i discendenti dei fazendeiros) e le nuove leve del potere, cioè la finanza, il petrolio. La lobby era già consolidata, tant’è che lo stesso Lula dovette ammettere che la corruzione si era affacciata anche nel suo partito. Il parlamento di Brasilia non aveva più lo stesso focus di qualche anno prima, quando le riforme si sono fatte.

Dilma ha prima appoggiato i manifestanti, dimostrando un comportamento rivoluzionario per chi detiene l’onere della premiership, e poi ha agito. Si è schierata con loro e ha fatto dirottare un bel po’ di reais sull’istruzione. Ha invocato il cambiamento. Ha promesso la lotta alla corruzione andando contro una parte consistente del proprio partito, legato a logiche clientelari, e favorevole al mantenimento degli alti livelli d’inflazione.

E ha realizzato quello che avrebbe fatto, in maniera populistica, ma forse efficace, Hugo Chávez, annunciando un referendum popolare entro breve termine teso a convocare un’Assemblea costituente che riformi lo Stato e la politica. Come corollario ha anche promesso un piano nazionale per migliorare la qualità dei servizi pubblici.

Questo è quanto è accaduto nel pacifico, immenso, e ricco Brasile. Quando la politica viene veramente dal basso riesce a produrre effetti concreti. Il dato innovativo è un popolo che protesta e un capo di Stato che cerca di legittimare le richieste della popolazione contro il blocco politico-sociale che da tempo amministra il Paese. Se Dilma dovesse fallire, ci potrebbe essere il clamoroso rientro di Lula, che ha ormai sconfitto i problemi di salute, alle presidenziali del 2014. Insomma, la partita è appena cominciata.

 

Andrea Martire

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Andrea Martire

Appassionato di America Latina, background in scienze politiche ed economia. Studio le connessioni tra politica e sociale. Per lavoro mi occupo di politiche agrarie e accesso al cibo, di acqua e diritti, di made in Italy e relazioni sindacali. Ho trovato riparo presso Il Caffè Geopolitico, luogo virtuoso che non si accontenta di esistere; vuole eccellere. Ho accettato la sfida e le dedico tutta l’energia che posso, coordinando un gruppo di lavoro che vuole aiutare ad emergere la “cultura degli esteri”. Da cui non possiamo escludere il macro-tema Ambiente, inteso come espressione del godimento dei diritti del singolo e driver delle politiche internazionali, basti pensare all’accesso al cibo o al water-grabbing.

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