Pubblichiamo la testimonianza di un nostro collaboratore residente in uno dei Comuni che fanno parte della “zona rossa” sottoposta a quarantena in Lombardia nel tentativo di arginare l’epidemia di coronavirus. Una riflessione su come la globalizzazione e la tecnologia hanno cambiato radicalmente il nostro modo di vivere, messo a dura prova in queste difficili settimane.
Quando iniziai a scrivere, ormai quattro anni fa, per “Il Caffè Geopolitico”, mai avrei immaginato che sarei passato dallo scrivere dal mio paesino allo scrivere del mio paesino.
Tutto comincia nella notte tra il 20 e 21 febbraio, quando leggo che una persona viene positiva al Coronavirus a Codogno. A pensarci bene, però, questa storia inizia almeno due mesi prima e dall’altra parte del mondo. A dicembre nella città di Wuhan, nella provincia di Hubei (al centro della Cina), inizia a diffondersi una misteriosa forma di polmonite virale. Il governo cinese inizialmente cerca di minimizzare la cosa, poi, di fronte all’evidenza, annuncia al mondo che l’umanità è di fronte a una nuova malattia, mai vista prima. Il suo tasso di mortalità è relativamente basso (intorno al 3% dei casi), ma è più forte di una normale influenza e in circa il 20% dei casi richiede il ricovero in ospedale. Soprattutto, il nuovo Coronavirus è un virus estremamente contagioso. Il Governo cinese prende misure drastiche. Il 23 gennaio sigilla la città di Wuhan, ai cui cittadini viene chiesto in sostanza di sacrificarsi per il bene della Cina. Le misure chiaramente non bastano a impedire la diffusione del virus nel resto del Paese, ma probabilmente ne rallentano l’espansione. Per alcuni giorni l’intera Cina entra in una sorta di quarantena collettiva: scuole chiuse, imprese chiuse, popolazione invitata (e a volte costretta) a non uscire di casa, tanto meno a spostarsi dalla propria città. La Covid-19 si diffonde e, ancora non si sa come, arriva in Italia.
Embed from Getty ImagesFig. 1 – Mascherine e prodotti igienizzanti sono i prodotti più venduti in queste settimane
E torniamo quindi alla sera del 20 febbraio e alla notizia del primo caso di Covid-19 a Codogno. Già, Codogno. Ora, per chi ancora non è pratico della geografia del Basso Lodigiano (e fino alla settimana scorsa questa categoria includeva la stragrande maggioranza degli italiani, fatta eccezione, magari per chi aveva sentito nominare quei piccoli e modesti paesini sul treno che porta da e verso la grande metropoli milanese), Codogno è il centro più importante dell’area ed è un rilevante snodo ferroviario. La zona è attraversata da ferrovie e autostrade ed è un collo di bottiglia strategico situato sulla direttrice tra Milano-Lodi e Piacenza. È una zona di piccoli paesi di pianura, molto rurale, in cui l’agricoltura e l’allevamento giocano ancora un ruolo fondamentale. Insomma, un posto dove le famiglie vivono bene e si sta abbastanza tranquilli, lontano dal formicaio di Milano. Leggendo quella notizia, dicevo, sento che mi manca il fiato e avverto una sgradevole sensazione. Castiglione d’Adda, dove io abito, è un piccolo paesino di soli 5.000 abitanti ad appena dieci minuti di macchina da Codogno. Tuttavia, sulle prime finisco per non dare alla notizia l’importanza che questa avrebbe assunto solo poche ore dopo per la vita mia, di chi mi sta vicino e della mia comunità. Vado dunque a letto e mi sveglio il giorno dopo. La notizia è entrata nei telegiornali e di sfuggita nei giornali (nelle pagine interne, insomma dove è stato possibile trovarvi uno spazio, vista l’ora tarda). Tutto accelera a partire dalla tarda mattinata: i contagiati sono almeno 3, l’ospedale di Codogno è chiuso, le persone con sintomi non devono recarsi al Pronto Soccorso ma chiamare il 118 e farsi visitare a casa. Si tratta del primo focolaio italiano di Covid-19. Sento suonare nella mia testa un campanello d’allarme. Avendo seguito, come molti, l’epidemia che imperversa in Cina ormai da mesi, so della sua facile trasmissibilità e so quali misure siano state prese dal governo cinese nei confronti dell’epicentro del contagio. Quella lontana malattia di cui abbiamo sentito parlare in televisione e di cui abbiamo letto nei giornali è dunque arrivata fino a qui. E per “qui” non intendo il concetto astratto di Italia. Intendo casa mia, i miei paesini, i luoghi in cui sono cresciuto. Se me l’avessero detto qualche ora prima, semplicemente non ci avrei mai creduto. Quel campanello d’allarme diventa una vera e propria sirena appena prima delle 12.30, quando scopriamo che i contagiati sono almeno 6 e che i cittadini di Codogno e Castiglione d’Adda (che, per ragioni di legami familiari, si scoprirà essere al centro del focolaio) sono “invitati” a restare in casa ed evitare contatti sociali. Chiaramente questo include anche me e la mia famiglia. L’atmosfera è tesa, i negozia iniziano a chiudere. Le cose, invece di migliorare, peggiorano nelle ore e nei giorni seguenti. Il 21 febbraio viene annunciato che i treni che servono i paesini della zona sono cancellati, non si fermeranno più nelle nostre stazioni. La sera del 22 febbraio un Consiglio dei Ministri straordinario decreta l’isolamento forzato di dieci Comuni del Basso Lodigiano considerati epicentro del focolaio: Castiglione d’Adda, Codogno, Casalpusterlengo, Castelgerundo, Maleo, Somaglia, Retegno, Fombio, San Fiorano, Terranova dei Passerini. Nessuno potrà più entrare o uscire senza autorizzazione. Tutti gli esercizi commerciali non essenziali (essenzialmente, farmacie e alimentari, ai quali si aggiungono gli allevamenti, i cui animali mica smettono di avere bisogno di mangiare se c’è il Coronavirus…) sono chiusi, le forze armate e le forze dell’ordine presidieranno gli accessi all’area.
Embed from Getty ImagesFig . 2 – Forze dell’ordine presidiano la zona rossa nel basso lodigiano
In poco tempo, insomma, la vita quotidiana di una tranquilla comunità è stata totalmente sconvolta. È difficile fare capire quale sia stato l’isolamento fisico e psicologico di quasi 50.000 persone, che in poche ore hanno perso quelle libertà e quei “privilegi” che sembrano tanto scontati: muoversi, andare al lavoro, aprire il negozio, prendere un mezzo pubblico. L’isolamento “coattivo” è durato due settimane, quello “volontario” anche di più. Anche oggi ci si chiede quanti nuovi casi ci saranno, chi saranno e se si riuscirà a sconfiggere quel nemico venuto qui da tanto lontano, da quelli che un tempo erano i confini del mondo e che oggi sono raggiungibili in relativamente poche ore di aereo. L’isolamento spaventava più del virus. La situazione è stata (e in parte è) ancora particolarmente dura per chi è contagiato o conosce contagiati, per chi ha perso un caro, per chi deve lavorare e non ha potuto più farlo, per chi magari aveva bisogno di recarsi in ospedali fuori zona per motivi non rinviabili e aveva bisogno di ottenere un permesso, per chi aveva familiari stretti all’esterno, per chi ha in famiglia o tra le amicizie persone particolarmente vulnerabili al virus (cardiopatici, diabetici, anziani, immunodepressi: qui come nel resto di Italia quasi in ogni famiglia ci sono una o più persone rientranti in queste categorie).
Hanno pesato anche le preoccupazioni per l’economia locale. Da una parte c’erano i pendolari che lavorano a Milano e i professionisti, che si arrangiano come possono con lo smartworking e il telelavoro. Dall’altra parte, però, c’erano i commercianti, gli artigiani, i lavoratori nelle aziende della zona, quelle aziende che rischiano di chiudere e non riuscire più a riaprire. Questi ultimi non potevano aprire un negozio a distanza o mungere una mucca con lo smartworking e la loro disperazione e frustrazione è aumentata di giorno in giorno, insieme alle recriminazioni e alla sensazione di essere abbandonati e lasciati indietro dal resto del mondo.
Ora la zona rossa è scomparsa. Alcune delle restrizioni che l’hanno caratterizzata, però, saranno vissute per almeno un mese da 16 milioni di persone in quattro regioni, Basso Lodigiano compreso. E sebbene per la mia zona il nuovo regime sia un primo piccolo ritorno alla normalità, per moltissimi altri invece rappresenterà una cambiamento faticoso da accettare. Mi permetto quindi di riportare un aneddoto che meglio di ogni altro credo simboleggi la forza tranquilla e modesta con cui la mia comunità ha affrontato uno dei periodi più difficili della sua storia, fornendo al resto della nazione un magnifico esempio di resilienza in un momento critico per la vita del nostro Paese. In un audio inviato ai parrocchiani nei primi giorni di isolamento il parroco di Castiglione d’Adda (che è quindi anche il “mio” parroco), dopo aver ricordato che le messe pubbliche, ovviamente, erano sospese e dopo aver invitato i cittadini a rispettare le decisioni delle autorità, ha aggiunto: “Quando sentirete suonare le campane della messa, unitevi al sacerdote che offrirà il sacrificio del Signore per tutti. Domenica mattina, dopo la messa che celebrerò alle 11, uscirò da solo sul sagrato della chiesa parrocchiale benedicendo con il Santissimo Sacramento tutta la parrocchia e tutto il paese. Stiamo uniti nella preghiera”. Ecco, stiamo uniti.
Davide Lorenzini