Concludiamo la nostra analisi sulle relazioni afro-indiane esaminando i possibili modelli di cooperazione tra le due regioni. L’Africa sarà finalmente in grado di agire come un attore unitario ed evitare di subire passivamente le ingerenze esterne?
(Qui la prima e la seconda parte)
ACCORDO DI SVILUPPO – Dopo il primo incontro a Nuova Delhi nell’aprile del 2008, nella capitale dello Stato etiopico si è svolta la seconda seduta dell’India Africa Forum Summit nel maggio del 2011. La Dichiarazione di Addis Abeba può considerarsi, forse, il manifesto più compiuto delle nuove relazioni tra India e Africa, fondate sull’identificazione di un framework cooperativo di lunga prospettiva. Tra le priorità discusse, la salvaguardia del Golfo di Aden, del Mar Arabico e dell’Oceano Indiano in ottica anti-pirateria, ma anche l’incremento dei flussi di capitale e investimenti per una crescita infrastrutturale del continente. Tratto peculiare dell’impegno indiano è l’attenzione ai tassi di sviluppo umano. In tal senso l’industria farmaceutica riveste un’importanza nevralgica per l’Africa, poiché offre un ampio ventaglio di soluzioni sostenibili ai problemi sanitari grazie a dei prodotti che non potrebbero essere importati dai Paesi occidentali a causa dei prezzi. L’India ha evidentemente manifestato la propria volontà di contribuire alla trasformazione del continente, non solo in ottica socio-economica. L’aspetto forse più rilevante è rappresentato da un modello di sviluppo che oltre a fornire soluzioni plausibili alle nuove sfide globali riesca a integrare maggiormente la Comunità Economica Africana (RECs), e quindi l’Unione Africana, per un partenariato strategico capace di imporsi sulle questioni di politica internazionale. Dal punto di vista africano invece, strategicamente il Paese asiatico è un attore autonomo nell’arena globale, anche in virtù della contraddittoria appartenenza al club nucleare.
NEW DELHI MODEL? – È importante però fare alcune precisazioni di carattere generale per evitare di cader preda dei facili entusiasmi. Il dibattitto generato intorno al potenziale espresso da un ipotetico New Delhi Model, incentrato sulla democrazia, lo sviluppo commerciale, infrastrutturale e umano, deve essere necessariamente contestualizzato ai problemi strutturali che il Paese deve affrontare. Lo stesso Governo ha infatti espresso un reiterato disappunto nel farsi carico di così grosse aspettative, stretto com’è da un allarmante divario economico tra i suoi centri e le sue periferie, e un federalismo in continua crisi da governance. Sono questioni indicative, alle quali potrebbero aggiungersene molte altre (carenza di infrastrutture, povertà endemica, corruzione, Kashmir, rivolta maoista, condizione delle donne…la lista è piuttosto lunga), ma che rischiano di vanificare un virtuosismo che al momento non sembra aver raggiunto la maturità necessaria per essere esportato. Come d’altronde riconosciuto a più riprese dallo stesso oficialismo indiano, più incline a concepire gli spettacolari risultati raggiunti con il basso profilo della transizione, e a sottolineare non tanto il possibile limite della parabola creata, quanto piuttosto il tipo di approccio con cui è stato possibile generarla, in attesa di nuove risposte. Sembra quindi lecito chiedersi se l’India rappresenti o meno un’alternativa plausibile oppure se riproporrà sotto altre vesti logiche e forme di potere già viste. È un nuovo sfruttatore o il rappresentante sincero di una cooperazione Sud-Sud?
Ci sono delle ovvie constatazioni da fare. L’India è un Paese in via di sviluppo con le medesime aspirazioni e problematiche; compone insieme all’Unione Africana (UA) un importante blocco d’intesa all’interno del WTO; ha favorito il processo di decolonizzazione fornendo supporto diplomatico; non è percepito come un attore favorevole agli aggiustamenti strutturali che hanno impoverito il continente; infine, la natura a tratti empatica delle relazioni reciproche dovuta a dei trascorsi coloniali comuni.
L’AFRICA È PIÙ CONSAPEVOLE – Il rischio che il terzo scramble per le risorse africane sia dannoso come quelli precedenti comunque rimane, insieme alle perplessità. Prima di capire le forme attraverso cui nuove realtà possano interagire nel continente, prima di valutare i pro e i contro, i benefici e i rischi, le intese e le frizioni internazionali, è indispensabile che i cursori di risorse vengano trasformati in vettori di sviluppo socio-economico stabili. Altrimenti si finirebbe col concepire l’Africa come un attore passivo in balia degli eventi, reiterando in tal modo la spersonalizzazione orientalista del continente. La sfida cruciale è che la rincorsa possa finalmente essere gestita a beneficio dei Paesi africani. Durante la Guerra Fredda, i progetti statunitensi e sovietici furono implementati sulla base di accordi clientelari e militari. Il risultato fu un continente dilaniato da guerre intestine, esodi interminabili e crisi umanitarie. Un lascito ancora percepibile nelle zone di conflitto in Sudan, Somalia e Repubblica democratica del Congo. Il pericolo attuale è il radicalizzarsi di un confronto tra USA e Cina capace di destabilizzare un asse che risente profondamente del multipolarismo emergente. È per questo motivo che risulta necessario rafforzare le Istituzioni africane interne. Se ciò non fosse possibile, si riprodurrebbe lo schema di sostegno clientelare che ne ha minato lo sviluppo, aggravato ulteriormente da una frammentazione senza precedenti.
Tuttavia l’Africa sembra maggiormente consapevole delle proprie capacità. Le aspirazioni sembrano andare di pari passo con una più incisiva coesione politico-istituzionale del continente. L’elemento di novità sembra essere la rottura con il modello di accumulazione a favore di un’economia più attenta agli standard di vita della popolazione. È proprio questo aspetto a determinare la volontà di approfondire i rapporti di cooperazione Sud-Sud all’insegna della crescita reciproca e della mutua sussistenza, nonostante i dubbi sulla sostenibilità dei modelli da adottare.
UN’ALLEANZA RIFORMATRICE – Il lessico della cooperazione indo-africana sembra dunque fondarsi su questi ultimi due assiomi. Da un lato, un continente ricco di risorse in rapida diminuzione in altre parti del mondo, ma estremamente debole a livello di infrastrutture; dall’altro un subcontinente privo delle risorse necessarie per proseguire la propria parabola di sviluppo, ma dotato di un settore servizi e di un know how tecnologico in grado di risolvere le carenze del primo. Proiettando la partnership sull’arena globale, se da un lato una maggiore integrazione dell’UA garantirebbe una più efficiente capacità istituzionale per le questioni interne, dall’altro fornirebbe un supporto di enorme rilevanza per l’ottenimento del tanto rincorso seggio permanente al Consiglio di Sicurezza dell’ONU, che a sua volta avrebbe senz’altro una maggiore coscienza su come affrontare le problematiche del continente africano. Il 13 gennaio 2012, Hardeep Singh Puri, Rappresentante Permanente dell’India all’ONU, in un’uscita ufficiale ha fatto notare come i due terzi dell’agenda riguardassero l’Africa. E non solo in quella circostanza. Non sembrava quindi esagerato proporre un maggior coinvolgimento proprio dell’UA su questioni di sua diretta pertinenza, paventando una più stretta integrazione tra i due organismi. Un’alleanza strategica votata alla complementarietà, così da ridurre l’approccio selettivo ed esclusivo che da sempre ha caratterizzato i lavori dell’ONU.
In una riflessione sul rapporto del Palazzo di Vetro intitolato “World population prospects”, Paul Kennedy porta avanti un’argomentazione di grande attualità circa le previsioni aggiornate sulla popolazione mondiale: «Secondo il documento, la popolazione del pianeta passerà entro il 2050 dai 7 miliardi e 200 milioni di oggi a 9 miliardi e 600 milioni. […] Di conseguenza, certe strutture politiche finiranno per sembrare assurde: sommate insieme Russia, Regno Unito e Francia – tre degli attuali membri permanenti, quindi con potere di veto, del Consiglio di Sicurezza dell’ONU – avranno meno abitanti dell’Indonesia. […] La stragrande maggioranza dei nuovi appartenenti al genere umano nascerà in una condizione di povertà opprimente e carica di risentimento, e questa condizione coesisterà con i nuovi alberghi di lusso […] in tutte le località esotiche dell’Asia, dell’Africa e dell’America Latina. […] Che succederebbe se quattro miliardi di persone dovessero ribellarsi contro il sistema esistente? Il momento per pensarci è ora».
(Fine)
Mario Paciolla