Analisi – La mastodontica Belt and Road Initiative subisce i contraccolpi della pandemia e della frenata della locomotiva cinese. Nonostante il deciso dispiegamento della “Via della Seta sanitaria”, i rischi collegati all’insolvenza finanziaria di numerosi Paesi gettano ombre sul futuro dei progetti infrastrutturali marchiati BRI.
UNA NECESSARIA RISTRUTTURAZIONE DEL PROGETTO
La pandemia di Covid-19, nella quale prima la Cina e poi il mondo intero (eccezion fatta per la desolata Antartide) si sono ritrovati in questo 2020, assume sempre più i contorni di un evento epocale, capace di incidere prepotentemente sulla Storia globale. Il grado di incertezza che attanaglia le nostre società in queste settimane è massimo, e molte delle ipotesi che sembrano oggi plausibili potrebbero non trovare conferma fra qualche mese: tutto dipenderà dalla severità dello shock socio-economico alle porte e dalla capacità di assorbimento dello stesso da parte della istituzioni politiche, finanziarie e sociali nel loro complesso.
Non sfugge a questa logica anche la Belt and Road Initiative (BRI), il mastodontico insieme di progetti infrastrutturali lanciato nel 2013 dal Presidente Xi Jinping che per sua intrinseca natura risente in maniera esponenziale dei rischi derivanti da una limitazione degli scambi e delle connessioni a livello planetario. Tali problematiche sono acuite dal fatto che è sempre stata Pechino stessa a porsi come principale promotrice e finanziatrice dei vari progetti lungo la Nuova Via della Seta, facendo in modo di non attrarre partner in grado di giocare un ruolo di rilievo nella gestione e realizzazione delle opere in cantiere.
Questa situazione impatta notevolmente in un contesto nel quale la Covid-19 ha già fatto sentire i suoi effetti sull’economia cinese, con la prima discesa in zona rossa del PIL sin dal 1992 (-6,8% nel primo trimestre 2020): il timore di una consistente frenata dopo decenni di crescita quasi inarrestabile è forte, tanto che una ricalibratura dei macro-obiettivi economici pare inevitabile. Ciò si può tradurre in una decisa spinta a ridimensionare la propria esposizione internazionale al fine di privilegiare un riassetto e un riequilibrio del contesto economico interno, visto anche che (riallacciandosi a interessanti analisi sul tema) la stessa BRI non viene considerata fra le priorità più urgenti nella grand vision del timoniere Xi Jinping.
Fig. 1 – Messaggi di sostegno all’Italia su un autobus di Hangzhou, 24 marzo 2020
LA VIA DELLA SETA SANITARIA
In queste settimane, tuttavia, vi sono elementi tali per cui il progetto BRI può svolgere un ruolo di primo piano nelle dinamiche diplomatiche ed economiche che si diramano da Pechino. Si è potuto notare, infatti, come la dicitura “Health Silk Road” (健康丝绸之路 in cinese, Via della Seta sanitaria in italiano) sia stata proposta con forza dalla Repubblica Popolare per indicare tutta una serie di aiuti (sottoforma di invio di personale e macchinari medici) a sostegno di quei Paesi che si sono trovati in grave difficoltà a gestire e contenere la Covid-19.
La strategia cinese non è certamente imperniata solo ed esclusivamente sul binario sanitario della BRI, come si può vedere dalle offerte pervenute ai Governi di Malesia, Grecia, Filippine direttamente dalle ambasciate cinesi locali o tramite l’intenso lavoro multilaterale profuso in organizzazioni quali l’ASEAN, la Shanghai Cooperation Organization (SCO) e il meccanismo 17+1. Tuttavia l’aspetto più rilevante e significativo è proprio quello connesso alla Health Silk Road, vista l’esposizione mediatica e anche le implicazioni che essa comporta. Ed è proprio l’Italia a essere al centro di tale iniziativa, come ricordato dal Presidente cinese Xi in una telefonata al Presidente del Consiglio Giuseppe Conte (“La Cina è disposta a collaborare con l’Italia per contribuire alla cooperazione internazionale nella lotta contro l’epidemia e alla costruzione di una Via della Seta per la salute”).
Eppure il concetto di Health Silk Road è slegato nella sua origine all’attuale pandemia: questo termine fa la sua comparsa per la prima volta nel gennaio 2017, quando proprio Xi Jinping ne fa menzione in occasione della firma di un Memorandum of Understanding con l’Organizzazione Mondiale della Sanità (OMS) a Ginevra. Lo stesso direttore generale dell’OMS Tedros Adhanom Ghebreyesus (recentemente accusato di aver coperto il ritardo con cui Pechino ha reso pubblico l’inizio dell’epidemia da Covid-19) salutò come “lungimirante” la proposta di costruire attorno alla BRI un network di cooperazione sanitaria. La Repubblica Popolare dunque capitalizza una scelta presa più di tre anni fa grazie agli sviluppi su scala planetaria della Covid-19, i quali stanno mostrando come Pechino abbia deciso di puntare fortemente sulla consapevolezza di una radicata inefficienza delle strutture socio-sanitarie dei Paesi afroasiatici, quanto a mezzi, personale e materiali, con evidenti ritorni non solo meramente economici, ma anche a livello di immagine e di soft power.
Certo, le dimostrazioni di vicinanza e aiuto che compaiono quasi quotidianamente nei telegiornali di tanti Paesi (Italia in primis) hanno contribuito a risollevare l’immagine della Cina, intaccata pesantemente da un virus originatosi sul suolo nazionale. Ad un livello di analisi più approfondito, tuttavia, traspare chiaramente come i principali partner commerciali si stiano distanziando sempre più da Pechino, e se ciò era un dato conclamato per quanto riguarda gli Stati Uniti post trade war, bisogna registrare un raffreddamento dei rapporti con le cancellerie europee, Berlino e Parigi su tutte.
Fig. 2 – Da sinistra a destra: il Presidente filippino Rodrigo Durterte, il Premier pakistano Imran Khan e quello thailandese Prayut Chan-o-cha durante il secondo Belt and Road Forum dell’aprile 2019
LO SPETTRO DEL DEBITO
Nubi fosche si addensano all’orizzonte del progetto BRI, specialmente per quanto riguarda la capacità di tutti quei Paesi che rischiano, a causa della crisi innescata dalla pandemia in atto, di non riuscire a ripagare i debiti contratti per le opere infrastrutturali in costruzione. Uno dei casi più emblematici è sicuramente lo Sri Lanka, il cui Governo (in seguito a difficoltà finanziarie) già nel 2017 dovette affidare a una compagnia cinese la gestione del porto di Hambantota. Molti Paesi africani si trovano variamente esposti nei confronti di Pechino e lo stesso vale per il Montenegro, a seguito della (parziale e non ancora terminata) autostrada che dovrebbe collegarne la zona costiera con il confine serbo.
Sono tutti questi esempi ormai “classici” di Paesi a rischio debt trap (trappola del debito), ossia una situazione tale per cui diventa difficile o impossibile ripagare un debito a causa, solitamente, di elevati interessi su di esso. Lo shock causato dalla Covid-19, che si annuncia di proporzioni straordinariamente grandi, oltre a limitare nuovi pattern d’investimento da parte della Cina stessa potrebbe portare a una gigantesca ondata di richieste di rinegoziazione di debiti pregressi. Questo fatto, unito alla revisione degli standard finanziari già in atto nel sistema bancario cinese, porterebbe a un serio arresto di numerosi piani di espansione della BRI in tutta l’Eurasia e in Africa.
Ancor prima dello scoppio della pandemia a Wuhan, diversi esperti stimavano che l’ammontare dei debiti “nascosti” dei Paesi in via di sviluppo nei confronti della Cina superava quello verso il Club di Parigi, la Banca Mondiale o il Fondo Monetario Internazionale (FMI). L’aspetto da tenere in conto è che ora questi prestiti di matrice cinese, caratterizzati da minor trasparenza e condizioni opache rispetto agli standard internazionali, possono mettere in ginocchio questi Paesi e spalancare le porte a una possibile acquisizione di Pechino di asset strategici in giro per il mondo. La ricaduta reputazionale per Xi, però, sarebbe enorme, tanto che un riposizionamento e una riduzione in termini assoluti della Belt and Road (perlomeno temporanea, fino a quando la Covid-19 sarà sotto controllo) pare inevitabile.
Luca Spinosa
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