In 3 sorsi – L’emergenza sanitaria dovuta alla diffusione del nuovo coronavirus ha inasprito i rapporti tra USA e Cina. A pagarne le conseguenze i giornalisti americani operativi in Cina e le sedi americane dei principali organi di informazione cinesi.
1. TRA CENSURA E CITIZEN JOURNALISM
Il 22 aprile, con un video pubblicato su Youtube, Li Zehua torna a farsi sentire e a raccontare la sua vita in quarantena a Wuhan. Li, ex giornalista della CCTV scomparso dal web dal 26 febbraio, aveva intrapreso una personale lotta alla disinformazione sulla reale diffusione del nuovo coronavirus nella sua città e in tutta la Cina. Secondo il Governo cinese, con la pubblicazione di foto e video che riprendevano l’attività continua dei forni crematori di Wuhan, l’ex giornalista avrebbe turbato la stabilità sociale, oltre ad aver frequentato aree poco sicure. Quest’ultima accusa avrebbe quindi autorizzato il suo arresto e l’isolamento per 4 settimane. Li Zehua è diventato il simbolo della lotta contro il Governo centrale che, sfruttando il blocco per l’emergenza sanitaria, continua a inasprire le misure nei confronti di cittadini e giornalisti che chiedono maggiore trasparenza sui reali numeri delle vittime da SARS-CoV-2. Li infatti non è solo: altri due giornalisti, Fang Bin e Chen Qiushi, sono scomparsi. Altro caso eclatante è quello della dottoressa di Wuhan Ai Fen, che ha fatto conoscere il virus e di cui non si hanno più notizie da marzo. E da febbraio si sono perse le tracce anche dei giornalisti Da Xu Zhangrun e He Weifang che hanno accusato il Governo di limitare la libertà di stampa e la diffusione di informazioni chiare sull’emergenza sanitaria. Ultimo lo studente Zhang Wenbin, scomparso dal 30 marzo, dopo che, in un video pubblicato sui social, aveva chiesto al Presidente Xi Jinping di dimettersi a causa della pessima gestione della crisi.
Embed from Getty ImagesFig. 1 – Una donna a passeggio per le strade di Wuhan, epicentro cinese della pandemia di Covid-19, 22 maggio 2020
2. LA STAMPA ESTERA IN CINA
Era il 2003 quando Hu Shuli, fondatrice e direttrice della rivista Caixin, specializzata in finanza, ricevette il prestigioso riconoscimento International Editor of the Year dalla World Press Review. Contrastando i tentativi di insabbiamento da parte del Governo, aveva fatto conoscere al mondo l’emergenza dovuta alla SARS. Se si pensa infatti che fino agli anni Ottanta, un giornalista in Cina era considerato un’estensione propagandistica del Partito, e che solo dagli anni Novanta si iniziano a intravedere le prime testate indipendenti e freelance, non è difficile comprendere la straordinarietĂ dell’evento del 2003. Oggi Pechino, in nome della difesa della sicurezza nazionale, sta attuando una serie di misure interne per bloccare il proliferare di approfondimenti e reportage che possano in qualche modo far luce sulle numerose zone d’ombra dell’epidemia. Il buon nome del Partito Comunista e il consenso interno sembrano avere carattere prioritario anche sul numero di morti e contagi. E i giornalisti stranieri? Altra spina nel fianco per Xi Jinping è sicuramente la presenza sul territorio nazionale di numerose redazioni di testate estere, che, grazie a differenti parametri di libertĂ di informazione, stanno cercando, seppur con non poche difficoltĂ , di raccontare cosa non ha funzionato nel Paese da cui tutto è partito. In particolare, la presenza di delegazioni di corrispondenti stranieri è gestita dal Foreign Correspondents’ Club of China (FCCC), la cui creazione a Pechino e Shanghai risale al 1981. Il Club gestisce i rapporti con i distaccamenti dei media da tutto il mondo e cerca di preservare i delicati equilibri tra il mondo dell’informazione cinese e quello internazionale. Guardando ai numeri, nel 2019 il Governo cinese ha concesso la “press visa” soltanto a 100 giornalisti stranieri, la cui attività è sottoposta a rigidi controlli da parte delle AutoritĂ governative. Pur non essendoci mai stati particolari attriti tra il Governo centrale e il FCCC, proprio da quest’ultimo è stata resa nota la notizia dell’espulsione di 13 giornalisti americani dal territorio cinese, risultato di uno scambio di ritorsioni tra Cina e USA.
Embed from Getty ImagesFig. 2 – Josh Chin e Philip Wen, reporter del Wall Street Journal, si apprestano a lasciare la Cina dopo essere stati espulsi dal Governo di Pechino, 24 febbraio 2020
3. REAZIONE A CATENA
Tra la fine di gennaio e gli inizi di febbraio, il nuovo coronavirus si è diffuso dalla città di Wuhan al resto del mondo, provocando nuove tensioni tra Cina e USA. Il 3 febbraio il Wall Street Journal pubblicava un editoriale dal titolo “China is the real sick man of Asia”, che criticava pesantemente la gestione dell’epidemia da parte della Cina. La risposta di Pechino alle accuse del giornale americano non si è fatta attendere e, dopo le mancate scuse ufficiali da parte del WSJ, Josh Chin, Chao Deng e Philip Wen si sono visti revocare la tessera da giornalisti e sono stati obbligati a lasciare la Cina entro 5 giorni. A seguito di questa espulsione, una tra le più importanti per modalità e tempistiche, le tensioni tra i due Paesi hanno subito un ulteriore peggioramento. Il 18 febbraio il Presidente Trump, dicendosi preoccupato per lo stretto legame tra giornalisti cinesi sul suolo americano e il Governo centrale, ha infatti dichiarato “missioni straniere” cinque organi di informazione cinesi. Questa decisione ha poi avuto reale esecuzione il 13 marzo quando lo staff di Xinhua News Agency, China Global Television Network (CGTN), China Radio International e China Daily Distribution Corp negli USA è stato complessivamente ridotto da 160 a 100 unità . Stranamente non sono stati presi provvedimenti nei confronti della Hai Tian Development USA che si occupa della distribuzione del People’s Daily, il quotidiano ufficiale del Comitato centrale del Partito Comunista. La reazione cinese è stata immediata e i giornalisti di Voice of America, New York Times, Washington Post, Wall Street Journal, Time Magazine sono stati recentemente invitati a lasciare tempestivamente il paese. Inoltre alle redazioni di tali media è stato richiesto di fornire informazioni scritte inerenti attività finanziarie ed eventuali possedimenti immobiliari in territorio cinese. Dovranno anche essere restituite le press card in scadenza nel 2020 e non rinnovate dalle autorità . Stessa sorte anche per le sedi dei media statunitensi presenti ad Hong Kong e Macao, nonostante gli accordi di Londra garantiscano in questi territori un regime autonomo di libertà di stampa sino al 2047. La richiesta di informazioni trasparenti da parte non solo degli Stati Uniti, ma di tutta la comunità internazionale, porterà inevitabilmente la Cina a rivedere sia il ruolo della stampa nazionale, troppo spesso vittima di censura e costretta a seguire le rigide logiche del Partito, sia la gestione e la collaborazione con i giornalisti stranieri presenti sul territorio nazionale. E non è affatto scontato che Pechino allenti le maglie della censura nei confronti dei media, nazionali e internazionali.
Isabel Pepe
“Xi Jinping, painted portrait _DDC2126” by Abode of Chaos is licensed under CC BY