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Diario di Srebrenica

“Cartolina dalla fossa” (Edizioni Beit, Trieste), di Emir Suljagiæ è la testimonianza diretta di un ragazzo, ormai diventato uomo, che visse in prima persona gli orrori del massacro di Srebrenica, in Bosnia, avvenuto nel 1995. Un’opera letteraria che ci invita a riflettere sulla violenza di cui può essere capace l’uomo e sul ruolo della comunità internazionale, che troppo spesso rimane indifferente – o peggio complice – davanti a tragedie come questa.

«Ero sopravvissuto perché Mladiæ quel giorno si sentiva Dio: aveva il potere assoluto di decidere sulla vita e sulla morte. In seguito, per mesi lo sognai ogni notte: rivivevo da capo quell’incontro, cercando di dimenticare i dettagli che mi perseguitavano. Mi svegliavo davanti ai suoi occhi iniettati di sangue, mi veniva da vomitare per il fetore che gli alitava dalla bocca, nelle mie narici era rimasta la puzza di alcool che aleggiava attorno a lui. Temevo che sarei impazzito cercando di spiegarmi perché mi avesse risparmiato, visto che ero altrettanto insignificante quanto dovevano esserlo stati ai suoi occhi tutti i miei amici che aveva ordinato di fucilare. Non riuscivo a trovare una risposta».

 

Emir, classe 1975, ha solo 17 anni quando la guerra impazza per le strade di Srebrenica. È ancora un ragazzo quando inizia a patire la fame, ché Srebrenica è ormai un’enclave assediata dalle milizie serbe di Bosnia, dove l’unico sale che si riesce a reperire per cucinare è quello secco e sporco utilizzato per pulire le strade dal ghiaccio in inverno e la gente è affetta dal gozzo. È ancora un ragazzo e già sa che cosa significhino il freddo e la miseria. È un ragazzo e ha paura, una gran paura,  lui che vorrebbe solo vivere, come le 56 persone tra cui molti bambini, che il 12 aprile 1993 vennero freddati durante un torneo di calcio dall’artiglieria serba.

Reclutato fin da subito come interprete per l’ONU, si trova a ricoprire un ruolo privilegiato rispetto al resto della popolazione, beneficio di cui però si ostina a non voler usufruire, cosicché, quando gli verrà data la possibilità di essere evacuato assieme ad un convoglio di feriti, non esiterà a cedere il suo lasciapassare ad un altro uomo; ed è grazie alla sua testardaggine ed al suo coraggio che si devono le uniche comunicazioni radio uscite da Srebrenica poco prima della disfatta.

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Emir Suljagiæ ha una sola domanda da porre a tutti noi: «dove eravate l’11 luglio del 1995?». «Ciò che avvenne a Srebrenica durante quei giorni è uno dei peggiori tradimenti del genere umano»: il tono accusatorio è una costante del libro che, unito all’eco violenta di un dolore sordo, ne fa per certi versi un’opera angosciante che non permette al lettore di immaginare un futuro per Srebrenica. In appendice, la conclusione di Guido Franzinetti corrobora questo senso di cupa rassegnazione con affermazioni quali: «la violenza paga», «la giustizia non è di questo mondo», «le Nazioni Unite sono un inutile teatrino», «l’America è lontana, e l’Europa privilegia i propri interessi» e la poesia di Abdulah Sidran, sottolineando che «quanti di noi sono rimasti, siamo più morti di tutti i nostri morti» completa il senso di disfatta totale.

Pubblicato in Italia esattamente 15 anni dopo quel terribile luglio del 1995, questo Diario di Srebrenica si può ascrivere al genere narrativo che ha per fulcro il resoconto in presa diretta di un genocidio, da quello ebreo raccontato nella magistrale opera di Primo Levi, a quello armeno de “La masseria delle allodole”. L’opera di Emir Suljagiæ, primo documento letterario dedicato all’assedio di Srebrenica, pur senza la pretesa di segnare una pagina nel panorama narrativo mondiale, si presenta come un prezioso J’accuse nei confronti di ciò che l’ignavia della Comunità internazionale ha potuto consentire, appena quindici anni fa, alle porte di casa nostra, nel cuore di quel continente che afferma di poter vantare una delle più alte considerazioni del valore della vita umana.

Chiara Maria Lévêque [email protected]

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