Continua la nostra analisi sul complesso processo di integrazione dei Balcani nell’Unione Europea. Dopo aver fornito le linee generali, scendiamo ora nel dettaglio: Serbia, Montenegro, Croazia, Bosnia, Kosovo, Macedonia. A che punto siamo? E poi, ci sono la Russia e la Turchia…
Rileggi qui la prima parte dell’analisi.
IL QUADRO GENERALE– Senza ripercorrere le tappe delle singole vicende nazionali, è sufficiente accennare al fatto che il 2012 e l’inizio del 2013 hanno confermato la tendenza già osservata: benché non si possa parlare di disintegrazione vera e propria, gli stati sorti dal ‘decennio balcanico’ hanno mostrato di essere attratti da una sorta di forza centrifuga che li spinge a rifugiarsi all’interno dell’area, a causa delle difficoltà del completamento del processo di state-building. La Slovenia, tradizionalmente legata ai paesi di lingua tedesca, rappresenta un’eccezione, ma si tratta di uno Stato già membro dell’UE e dove la moneta unica è gia stata adottata. Oltre alle conseguenze della crisi economico-finanziaria, la sudditanza dei Paesi balcanici nei confronti della Russia, per quanto riguarda il fabbisogno energetico, ha svolto un ruolo importante, forse maggiore di quello attribuito alla costruzione del gasdotto South Stream, che ha ulteriormente rafforzato gli interessi russi nella regione. In questo quadro, affievolitisi anche gli investimenti e gli altri interessi europei nella regione per ovvi motivi, non stupisce affatto un rallentamento del processo di integrazione.
SERBIA, MONTENEGRO E CROAZIA – La Serbia ha ottenuto lo status di ‘Paese candidato’ nel marzo 2012 e il Montenegro in giugno, la Croazia dovrebbe entrare nel prossimo luglio, a meno che non intervengano sorprese nei voti di ratifica. Proprio dalla Croazia è intanto arrivato un segnale poco incoraggiante: alle elezioni per designare i propri rappresentanti al Parlamento europeo la percentuale di votanti è stata molto al di sotto del 50%, come a testimoniare lo scarso interesse degli elettori. Dalla Serbia invece, dove il raggruppamento nazionalista aveva avuto la meglio sui liberali europeizzanti alle ultime elezioni e si temeva la chiusura totale a determinate istanze europeiste, è arrivato un segnale esattamente contrario: nonostante la difficile evoluzione dei rapporti con il Kosovo, non solo è stato raggiunto un compromesso, ma è stato anche ratificato in tempi strettissimi dal parlamento di Belgrado, aprendo la strada a una insperata prospettiva europea.
BOSNIA – Nella maggior parte del 2012 la Bosnia è stata praticamente paralizzata dalla questione dei “veti incrociati”, che hanno impedito la formazione di un nuovo governo. Ciò ha confermato la fragilità e l’inefficienza del sistema politico-istituzionale sorto nel 1995 sotto la spinta impellente di far cessare il conflitto, ma inadeguato a far convivere tre comunità che non vogliono farlo e lo manifestano apertamente. Nonostante questa constatazione, nessun passo è stato compiuto dalle tre componenti per modificarlo. Nessuna fazione ha messo in agenda per il futuro eventuali cambiamenti e l’attuale status quo della paralisi sembra purtroppo destinato a continuare con la soddisfazione di tutti. Un recente documento ICG (International Crisis Group) ha focalizzato ancora una volta il problema -sul conflitto tra islam e nazionalismo definendolo un «dangerous Tango». Nonostante i richiami al rischio ‘terrorismo’, gli stessi Stati Uniti, di solito attenti a questa minaccia, hanno ridotto il loro interesse nei confronti di Sarajevo. Ignote restano invece le possibili conseguenze del censimento della popolazione iniziato questo aprile e ancora in corso. Come è noto, in Bosnia gli equilibri etnici dell’anteguerra sono saltati e fino ad ora le liste elettorali non sono sempre state compilate con la dovuta trasparenza. Con questo sistema alcuni partiti si sono garantiti dei veri e propri feudi ed eventuali risultati imprevisti potrebbero far salire la tensione.
KOSOVO E MACEDONIA – Per quanto riguarda il Kosovo, nonostante le previsioni pessimistiche e la tensione nella provincia (dove si sono segnalati nel 2012 i consueti incidenti di frontiera o road-blok, con conseguente intervento di KFOR), l’accordo inatteso con Belgrado ha allentato la tensione, ma è prevedibile ora una reazione della minoranza serba che potrebbe sentirsi tradita dalla Realpolitik di Belgrado. A parte il rapporto con la Serbia, l’accordo raggiunto ha rafforzato l’attuale classe dirigente kosovara che aveva avuto in precedenza altri due motivi di soddisfazione: l’ICO (International Civil Office), deputato alla sorveglianza delle prime fasi dell’indipendenza, era stato chiuso definitivamente e Ramush Haradinaj, già primo ministro e leader dell’UCK, processato per crimini di guerra al Tribunale dell’Aja, era stato assolto. Sebbene le polemiche sulla sentenza non possano ancora dirsi del tutto sopite, Haradinaj si presenterà alle prossime elezioni politiche previste per il 2015 con esiti abbastanza scontati.
Decisamente “perduta” sembrerebbe invece la Macedonia. La parte occidentale, dove vive una consistente minoranza albanese, subisce i contraccolpi del vicino Kosovo e intere zone di frontiera sembrano incontrollabili per la presenza di strutture criminali potenti e organizzate dedite a traffici di ogni tipo. La Macedonia ha comunque instaurato in questi anni un clima disteso nei rapporti con le proprie comunità islamiche: indubbiamente si è trattato di un segnale importante, ma non ha prodotto alcuna ricaduta fuori dal paese.
STATI DEBOLI – Elementi di rilievo o di buon auspicio sull’integrazione degli Stati balcanici in Europa praticamente non ce sono, anzi, si parla già apertamente di default geopolitico. Nonostante la buona volontà europea, che come si è visto è ora meno forte di un tempo, mancano anche volontà politiche individuali che partano dai singoli Stati interessati. Al contempo, gli standard richiesti dall’Unione non sono stati ancora raggiunti. Tutti gli Stati balcanici di recente creazione sembrano appartenere alla categoria dei cosiddetti “Stati deboli”. Non sono ‘Stati canaglia’ o ‘Stati falliti’, ma la loro situazione è tale da non consentire l’avviamento dei processi di riforme necessari, soprattutto per mancanza di risorse. Secondo stime delle organizzazioni internazionali, nel triennio 2012-2014 Albania, Bosnia, Macedonia, Montenegro e Serbia potrebbero crescere di poco più dell’1% annuo. Solo il Kosovo, in controtendenza, potrebbe superare il 3%. Slovenia e Croazia, sentendo da vicino la recessione, sono al contrario stimati in recessione o con una crescita sotto l’1%. È evidente che con questi dati pensare di colmare il divario con l’UE è impossibile. Preoccupanti anche i dati della disoccupazione: Serbia 25%, Bosnia 27% e Macedonia 30%. Poiché questi dati si sommano con il resto dei problemi irrisolti del dopoguerra, l’ottimismo sembra bandito.
In conclusione, poiché in geopolitica un vuoto tende sempre ad essere riempito, sembra di poter dire che Russia e Turchia si stiano apprestando a colmare quello lasciato dall’UE, ma questo argomento merita una discussione a parte.
Giovanni Punzo