Miscela Strategica – Da settembre Tony Abbott, liberale, è il nuovo Primo Ministro australiano. In politica estera, il suo obiettivo è rivedere la linea laburista elaborata dai predecessori Rudd e Gillard con l’integrazione dell’Australia nel sistema del Sudest asiatico, tornando a limitare i rapporti con Cina, Giappone e Indonesia al solo ambito economico-commerciale. C’è chi parla già di un moderato isolazionismo, anche a causa delle proposte di Abbott riguardo a immigrazione e missioni all’estero, però le contingenze potrebbero non essere favorevoli al premier liberale.
IL NUOVO GOVERNO – Lo scorso settembre i liberali guidati da Tony Abbott hanno vinto le elezioni in Australia, ponendo fine ai sei anni di guida laburista. Canberra è riuscita a fronteggiare con buona efficacia la crisi economica, ma il disordine all’interno del partito concorrente, soprattutto per la rivalità tra Rudd e Gillard, e la percezione che il sistema sia posto a rischio dall’incremento dei flussi migratori provenienti dal Sudest asiatico e dalla pressione cinese hanno favorito la vittoria di Abbott, nel cui programma ci sono proprio l’intensificazione dei controlli dei confini e un approccio diverso nei confronti di Pechino. In Australia, infatti, il dibattito verte per lo più attorno a temi strettamente connessi agli interessi nazionali, cosicché spesso si ha una preminenza della politica interna. Inoltre, per quanto concerne gli affari esteri, gli aspetti da tenere in considerazione per una sintesi della vicenda australiana contemporanea sono la percezione che Canberra ha di sé nello spazio globale, i rapporti con l’Asia e la politica migratoria.
LA SVOLTA DEGLI ANNI NOVANTA – È indubbio che la politica estera dell’Australia abbia subito importanti modificazioni nell’arco dei tempi. Da sempre il Paese si considera una sorta di bastione occidentale alle porte dell’Asia. La stretta vicinanza agli Stati Uniti (non dimentichiamo che le truppe di Canberra combatterono in Vietnam) rafforzava questa percezione negli australiani. Non è un caso, pertanto, se col 1989 l’Australia abbia cominciato a rivedere la propria posizione: il sostanziale cambiamento si è avuto coi Governi Howard (1996-2007), la cui impostazione in politica estera prevedeva il mantenimento dei forti legami politici con l’Occidente e l’apertura di sempre maggiori rapporti economici con l’Asia. In questo periodo, durante il quale il nuovo premier Abbott fu due volte ministro, l’Australia intervenne anche in Afghanistan e Iraq. Con Howard si ebbe un punto di svolta considerevole, poiché il Paese cominciò a vedersi come una parte del continente asiatico, sebbene dalla storia occidentale, cosicché si sviluppò anche una volontà a impegnarsi nella stabilizzazione del Sudest.
LA DOTTRINA GILLARD – La vicenda si evolse ulteriormente nell’epoca laburista (2007-2013): prima Rudd ampliò l’impegno australiano nelle Organizzazioni dell’Asia sudorientale, quindi Gillard rielaborò il principio dell’austrocentrismo, secondo il quale Canberra doveva mantenere l’alleanza con l’Occidente, ma al contempo muoversi indipendentemente nel Sudest asiatico. Con il “Defense White Paper” del 2012, intitolato programmaticamente Australia in the Asian Century, il Governo Gillard affermò un mutamento di rotta, cioè l’immagine del Paese come intermediario tra Occidente e Asia, rafforzando l’interdipendenza economica e partecipando agli strumenti di stabilizzazione dell’area. Tuttavia, un tale presupposto, simile, ma più moderato, rispetto all’idea di Rudd di contenere attivamente la Cina, necessitava di un incremento della presenza politica e militare nella regione: in poche parole dell’apertura di un eventuale fronte di scontro con la Repubblica popolare, intenzionata ad affermare la propria presenza anche nel Pacifico meridionale, fondamentale per la sicurezza delle tratte oceaniche. Nel “Paper” del 2013, però, si modificano i toni verso Pechino: la Cina non è più una minaccia, bensì un partner strategico, e la sua ascesa militare è «conseguenza naturale dell’avanzata economica». Il documento, quindi, riduce le ambizioni strategiche dell’Australia, affermando la necessità di contenere le spese della difesa (compreso l’annullamento dell’acquisto degli F-35). Secondo il Governo Gillard, l’impostazione militare australiana, piuttosto che sulla capacità offensiva, dovrebbe basarsi sulla «deterrenza contro attacchi o tentativi di coercizione, […] dimostrando di essere in grado di imporre un costo proibitivo a potenziali aggressori, […] negando loro il controllo dello spazio marittimo, […] grazie a sea denial, air control, air denial e proiezione di potenza». L’Australia, in sostanza, non intende più esercitare la funzione di “sceriffo” del Pacifico meridionale, ma preferisce la coesistenza con la Cina e la cooperazione economica.
SOTTO L’OMBRELLO DEGLI USA? – Secondo alcuni osservatori, la posizione australiana sarebbe favorita dal riassetto delle risorse statunitensi verso il Pacifico e dalla politica del “Pivot to Asia”: la presenza degli USA nella regione consentirebbe all’Australia una discrezionalità (compresa la riduzione del budget militare) garantita dalla protezione dell’alleato. Non a caso, la tendenza avviata da Julia Gillard nel periodo 2010-2013 ha sollevato le critiche statunitensi contro sia la progressiva integrazione del Paese in Asia, sia l’alleggerimento della presenza militare di Canberra nel Pacifico meridionale.
IL RITORNO AL PASSATO – I propositi del nuovo primo ministro Abbott sono però piuttosto radicali. In primo luogo, egli intende ritornare all’impostazione di Howard, che prediligeva la difesa degli interessi nazionali e il mantenimento di rapporti puramente economici con l’Asia, senza ulteriori progetti di integrazione. Abbott, inoltre, mira a mantenere la proiezione australiana nei limiti della regione immediatamente circostante il Paese, agendo solo qualora ci fossero serie difficoltà nel cosiddetto “Arco prossimo di instabilità”, cioè la cintura di arcipelaghi che dall’Indonesia giunge a Tonga, passando per Timor Est, Papua Nuova Guinea, Isole Salomone, Nauru e Figi. A riguardo, il premier è stato chiaro durante la campagna elettorale: l’opera del nuovo Governo in politica estera sarà rafforzare i rapporti con gli alleati storici, sostenere la diplomazia economica nei confronti dell’Asia ed evitare il collasso dell’Arco di instabilità. In questo senso, Abbot ha espresso anche la necessità di ridurre le missioni militari all’estero.
LE DIFFICOLTÀ PER ABBOTT – Un ostacolo a questa politica di disengagement, tuttavia, sarà per l’Australia il ruolo di membro non-permanente del Consiglio di Sicurezza dell’ONU per il 2013-2014, una circostanza che è stata trattata anche durante la campagna elettorale, soprattutto riguardo alla posizione dei candidati in caso di un intervento in Siria. Gli oppositori imputano ad Abbott di aver scelto un momento inopportuno per rivedere la presenza australiana sulla scena internazionale. Il Primo Ministro, però, ha confermato a Obama l’impegno per la pace e la sicurezza mondiali, definendosi pronto a sostenere gli USA anche in Siria. Quel che è certo, comunque, è che ormai, per l’Australia, non sia più possibile un distacco repentino dall’Asia, poiché, considerato il livello di interdipendenza raggiunto con Pechino, Canberra potrebbe solo andare in perdita.
LA ‘PNG SOLUTION’ – L’altro problema fondamentale per la politica australiana è il contrasto dell’immigrazione illegale. Per lungo periodo l’Australia è stato uno dei Paesi più razzisti al mondo: il desiderio di restare un territorio di «British character» diviso dall’Asia spinse alla “White Australia Policy”: dal 1901 l’accesso al Paese fu escluso per tutti coloro che non fossero di carnagione bianca o non superassero un test su una lingua europea. Le proteste della comunità internazionale e della stessa opinione pubblica australiana portarono alla completa soppressione della legislazione tra il 1973 e il 1975, con il “Racial Discrimination Act”, che vietava ogni selezione su base razziale. Tuttavia, per l’Australia l’immigrazione continua a essere uno dei problemi principali, tanto che, mentre a terra vigono norme fortemente restrittive, in mare è compito delle unità militari intercettare i barconi provenienti soprattutto dall’Indonesia (quasi 20mila persone hanno tentato di arrivare nel Paese nel 2012, con 242 morti). La politica australiana prevede la cosiddetta “PNG Solution”, ossia respingere i migranti e accompagnarli verso apposite strutture in Papua Nuova Guinea. Abbott ha promesso lo stanziamento di 420 milioni di dollari per il contrasto dell’immigrazione illegale e norme più rigide. Contestualmente, il Governo si impegnerebbe a rafforzare i rapporti diplomatici con i Paesi limitrofi per il controllo delle acque territoriali, una linea che ha già aperto uno scontro con l’Indonesia.
Beniamino Franceschini