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L’Apocalisse messicana

Da Città del Messico – Il problema del narcotraffico è ancora ben lontano dall’essere risolto nel grande Stato centroamericano  ed è un fattore di insicurezza e instabilità economica e sociale. Il Governo in carica, guidato da Felipe Calderón, ha deciso di affrontarlo utilizzando però metodi poco “ortodossi” che hanno alzato il livello della violenza. Direttamente dal Messico, inizia oggi un reportage del “Caffè” all’interno di questa realtà.

IL CAMBIO – Dieci anni fa il Messico intero, destra e sinistra, commercianti e contadini, brindava per la fine dell’egemonia del Partido Revolucionario Institucional (PRI) che per 71 anni aveva ininterrottamente governato. Finalmente, un esponente di un altro partito era riuscito a prevalere ufficialmente nelle elezioni presidenziali. Era già successo nel 1988 quando Cuauhtémoc Cárdenas Solórzano, leader del Partido de la Revolución Democratica (PRD), aveva ottenuto il maggior numero di voti nelle urne fino a quando il computer che conteggiava le preferenze si era stranamente spento per un blackout, riaccendendosi due ore dopo con in vantaggio il candidato del PRI. Nel 2000 invece, Vicente Fox, segretario del Partido de Acción Nacional (PAN), divenne il primo presidente del Messico non del PRI.

PABLO ESCOBAR – Parallelamente al PRI, si è sviluppata in Messico una fitta rete di potere basata sul traffico di droga e le conseguenti e connesse attività illegali; fin dal 1940 il triangolo d’oro messicano, Durango, Sinaloa y Chihuahua, è stata la principale zona di produzione di marijuana e papavero da oppio, che riforniva i vicini statunitensi e permise la crescita dei primi cartelli messicani, i quali, grazie ad accordi locali con diversi esponenti della classe politica, riuscirono a svilupparsi e creare una infrastruttura criminale leggera ma con un forte radicamento territoriale. Alla fine degli anni ‘80 i cartelli colombiani, ispirati da Pablo Escobar, che aveva adottato la stessa strategia con altre organizzazioni criminali, si avvicinarono ai loro fratelli messicani per stringere alleanze per trasportare cocaina negli Stati Uniti attraverso il Messico. Inizialmente, i commandos messicani ricevevano pagamenti in denaro contante per trasportare e distribuire la droga.

L’IMPERO – Poi, quando i cartelli colombiani nei primi anni ‘90 si combattono in una lotta fratricida, i corrispondenti messicani capiscono che è arrivato il momento per sostituirli nel dominio del traffico di droga verso gli Stati Uniti e utilizzano il loro forte radicamento nel territorio per diventare i padroni del commercio di sostanze stupefacenti in tutta la regione americana. Mentre producono in casa marijuana e eroina, comprano la cocaina in Colombia e la trasportano fino alla frontiera statunitense, dove si appoggiano con bande criminali di latinos che si occupano della vendita al dettaglio. Per il Dipartimento di Stato americano quasi il 70% del traffico di droghe che entra illegalmente negli Stati Uniti è controllato dai cartelli messicani, che generano annualmente un guadagno tra i 13.6 e 48.4 miliardi di dollari, denaro che viene riciclato in migliaia di imprese, dalle costruzioni alle compagnie aeree, alle griffe di moda. Si stima che solamente nel traffico di droga lavorino più di 150.000 persone, oltre a coloro impegnati nelle altre attività illegali, come il traffico di immigrati, lo sfruttamento della prostituzione o lo smaltimento illegale di rifiuti tossici. Quindi non sorprende che il fatturato prodotto dal crimine organizzato messicano corrisponde al 40% del Prodotto interno lordo.

GUERRA CIVILE – Con l’arrivo al potere di una nuova classe politica, l’impero economico del narcotraffico messicano non poteva rischiare un ridimensionamento. Improvvisamente gli accordi politici che per tanti anni avevano garantito la pace sociale erano messi in discussione; il PAN, nuovo partito al potere, aveva fatto della lotta alla droga la sua bandiera elettorale. Vicente Fox, primo presidente panista, decise di combattere questo crimine, attendendo però solamente la fine del suo mandato per effettuare alcune operazioni militari nel nord, a Ciudad Juárez, che è ormai una delle più violente città al mondo. Tuttavia è solo con l’arrivo al potere di Felipe Calderón (foto a destra) che la violenza raggiunge livelli altissimi. Il presidente in carica decide di farla finita con l’insicurezza dilagante e investe milioni di dollari nella lotta armata contro le mafie, inviando migliaia di militari in tutto il paese con un unico obiettivo: fermare con qualunque mezzo i narcotrafficanti. In tutto questo, l’unico cartello ad essersi rafforzato è quello di Sinaola, il più potente, comandato da Joaquin “El Chapo” Guzman. Da più parti sono state sollevate accuse e sospetti contro Calderón, che avrebbe “chiuso un occhio” verso il cartello di Sinaloa per poter  riuscire ad eliminare le varie bande che terrorizzano i cittadini e costruire un minimo di pace sociale. Gli altri cartelli però, quello del Golfo, di Tijuana, los Zetas, non possono che rispondere al fuoco con altra violenza: è cominciata così la guerra civile non dichiarata più violenta di questi ultimi anni. Secondo le cifre ufficiali governative, dal 2007 alla fine del 2009 si contano quasi 28.000 morti, più di 8000 solo nel 2010. Quotidianamente si scoprono fosse comuni dove si ritrovano centinaia di giustiziati a morte in maniera sommaria. Più di 60.000 immigrati centroamericani spariti nel nulla nell’attraversare il Messico negli ultimi 5 anni. Tremila messicani spariti negli ultimi 3 anni, probabilmente finiti nel traffico di persone, la maggior parte donne e bambini. Migliaia di persone che hanno subito estorsione, imprenditori che invocano i  caschi blu dell’ONU, città bloccate dal per protestare contro la cattura di uno dei suoi uomini, narco-terrorismo: il Messico di oggi è questo, stretto tra un’economia ricca di potenzialità di sviluppo e dall’altra parte una realtà criminale ancora ben lontana dall’essere contrastata.

Andrea Cerami (da Città del Messico) [email protected]

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