Negli ultimi anni, e in particolar modo nell’ultimo decennio, si è assistito a un ampio utilizzo del concetto di “operazione interforze”, con risvolti anche nell’ambito dell’informazione., in virtĂą della situazione globale piuttosto calda e incline agli interventi militari che hanno visto coinvolte le potenze occidentali e la NATO.
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MISUNDERSTANDING? Nel corso della copertura mediatica delle aree di crisi, i media sono rimasti spesso ad un livello di spiegazione piuttosto semplicistico e basato sulla concezione dei diversi servizi armati che combattono una guerra in maniera “comune”, quindi focalizzandosi molto sulla condivisione del teatro operativo ma meno sull’integrazione del combattimento. Per chiarire più approfonditamente la questione è utile soffermarsi su chi della modalità suddetta (nonostante i riconosciuti problemi) ne ha fatto una specie di dogma: le Forze Armate degli Stati Uniti.
IL PASSATO – Per la verità , se si analizzano gli interventi militari che hanno visto coinvolti gli USA sin dalla Seconda Guerra Mondiale, ciò che emerge chiaramente è che la presenza di più di un servizio (Esercito, Marina, Aviazione e Corpo dei Marines) è sempre stata assicurata. Il fatto, tuttavia, non significa che la presenza contemporanea nel medesimo teatro operativo non sia stata esclusivamente la somma di diverse forze che hanno preso parte ognuna autonomamente a un’operazione bellica. Nel migliore dei casi si potrebbe affermare che un servizio garantisse “agevolazioni” o sostegno agli impieghi tattici di un altro. Ci sono stati diversi esempi in tal senso, sebbene la manifestazione principale fu indubbiamente il conflitto in Vietnam, che oltre a complessità intrinseche nella sua essenza ha sofferto di forti deficienze in ambito operativo interforze. Da sottolineare come seppur combattuta in ambito tattico come una campagna integrata (in particolar modo con le unità aeree dell’Aviazione e della Marina a supporto della fanteria), si può parlare di più guerre svoltesi l’una indipendentemente dall’altra e senza una collaborazione reale volta al raggiungimento di obiettivi operativi e soprattutto strategici.
Il definitivo campanello d’allarme, però, si annunciò nel 1980 con l’invasione della piccola isola caraibica di Grenada, un’operazione che sulla carta non avrebbe dovuto impensierire minimamente le potenti armate statunitensi (ancorché in fase di recupero e rinascita post-Vietnam), ma che ancora una volta dimostrò come fosse veritiero l’assunto che sul campo di battaglia anche i migliori piani d’attacco s’infrangono contro la volontà del nemico e gli “attriti” della guerra. Se poi il piano stesso è concepito anche in modo piuttosto scarso e con una bassa dose di coordinazione tra le varie unità in campo, allora la ricetta per un disastro è assicurata. Alla fine l’operazione URGENT FURY si concluse in modo positivo per gli Stati Uniti, ma di fronte alla modestia dell’avversario non avrebbe potuto andare diversamente. Tuttavia un cambiamento incisivo era necessario.
LA RIFORMA – Di conseguenza la Casa Bianca diede impulso immediato allo studio di una revisione completa del sistema di comando e controllo delle forze armate sia a livello di teatro che globale, in modo da stabilire in modo deciso e netto quali fossero i responsabili/decisori ultimi nell’eventualità d’impiego in caso di conflitto “maggiore” o d’operazione bellica di qualsiasi altra natura. Il risultato ottenuto fu la più completa rimodulazione del sistema bellico americano avvenuta sin dalla creazione nel 1947 dell’NSC, il Consiglio per la Sicurezza Nazionale.
Conosciuto informalmente come Goldwater-Nichols Act del 1986 (sebbene la denominazione ufficiale fosse Goldwater-Nichols Department of Defense Reorganization Act) e votato a schiacciante maggioranza dai due rami del Congresso, prevedeva che il comando delle unità combattenti venisse tolto ai capi servizio, cioè il Capo di Stato Maggiore dell’Esercito e dell’Aviazione, il Capo delle Operazioni Navali e il Comandante del Corpo dei Marines, e assegnato a comandanti “regionali”. In modo da comprendere pienamente tale mossa è necessario illustrare brevemente la situazione pre-riforma.
Sostanzialmente l’autorità suprema militare era ricoperta dal Presidente degli Stati Uniti in qualità di comandante in capo, che attraverso il Segretario della Difesa contattava i suddetti capi servizio e ordinava loro i compiti da svolgere. Contemporaneamente vi era un organo composto dai quattro, il cui nome era Joint Chiefs of Staff (Capi di Stato Maggiore Riuniti), avente l’obiettivo di discutere i piani e i problemi delle Forze Armate e che a propria volta eleggeva un presidente con la funzione di rappresentare i militari e il relativo pensiero al governo civile. Tuttavia la disfunzione emersa derivava dal fatto che tale consiglio militare fosse piagato da rivalità inter-servizio neanche piuttosto velate (in particolar modo a causa dell’allocazione delle risorse) e dato che ogni capo comandava le forze del servizio di appartenenza, i piani elaborati per qualsiasi operazione erano ridondanti e scarsamente coordinati. Gli stati maggiori godevano di fortissima autonomia.
La riforma andò a incidere in primis sul JCS, che rimase composto dai medesimi soggetti (cui nel 2012 si è aggiunto il Capo dell’Ufficio della Guardia Nazionale), ma cui venne sottratto il controllo operativo delle forze militari. Il loro scopo divenne duplice: da una parte garantire l’addestramento, l’equipaggiamento e la prontezza dei rispettivi servizi, dall’altra servire come corpo di consiglieri militari di rango maggiore della nazione, con il Presidente dell’organo che funge da principale consigliere per gli affari militari del Segretario della Difesa e del Presidente degli Stati Uniti. Ma a chi sono assegnate le unità operative?
Rispondere a tale quesito significa parlare dell’altra grande rivoluzione: la creazione dei comandi combattenti unificati. Sostanzialmente il globo venne diviso in cinque zone geografiche militari, cioè l’America del Nord, Caraibi e Sud America, Europa e Africa, Pacifico e Grande Medio Oriente (l’Africa è stata separata nel 2007
dall’Europa con relativa creazione di un nuovo comando geografico) poste sotto il comando e controllo di un generale/ammiraglio a quattro stelle. All’interno di questi vi sono quattro sotto-comandi che servono da rappresentanti dei diversi servizi e controllano le unità militari specifiche. Va aggiunto, inoltre, che esiste anche un quinto sotto-comando che è adibito al C2 (comando e controllo) delle forze per operazioni speciali, che per loro natura godono di elevata autonomia. Tale organizzazione favorisce la semplificazione della catena di comando e la costituzione di un reale ambiente interforze, visto che gli stati maggiori dei comandi medesimi sono costituiti da ufficiali e sottufficiali provenienti da ogni servizio. Anche i piani di battaglia, di conseguenza, sono integrati in modo effettivo e non mere duplicazioni e/o sovrapposizioni l’uno dell’altro.
Infine esistono altri tre comandi unificati, conosciuti come funzionali, in quanto non attinenti all’ambito geografico ma fornitori di servizi o specialità . Parliamo dello STRATCOM, controllante la triade nucleare (ovverosia i missili balistici intercontinentali, i sottomarini balistici e i bombardieri); del TRANSCOM, importantissimo nella funzione di coordinamento delle navi, aerei e mezzi terrestri atti al trasporto degli uomini e dell’equipaggiamento sui diversi campi di battaglia; e del SOCOM, supervisionante tutte le SOF e dotato di sempre maggiore autonomia in seguito alle minacce e alla natura mutevole della guerra come emersa dall’11 settembre in poi.
Luca Bettinelli