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Le paure di Tel Aviv

Focus Egitto – Dalla Knesset, il Parlamento israeliano, e dalle strade di Gerusalemme e di Tel Aviv, si guarda con apprensione agli avvenimenti che hanno infiammato prima la Tunisia e ora stanno cambiando il volto politico del gigante nordafricano, l’Egitto. Il premier israeliano Netanyahu si è premurato di consigliare ai membri del suo governo un silenzio stampa riguardo gli avvenimenti del Cairo, ma nonostante la mancanza di dichiarazioni ufficiali non è difficile captare quali siano le impressioni, e le preoccupazioni, della leadership politica dello Stato ebraico.

COSA FARE – Israele, al momento, ha davanti due possibili linee d’azione: può assecondare, anche col silenzio, l’ondata di rinnovamento che sta facendo traballare Mubarak, prestando così fede al suo pluridecennale impegno per la causa di un Medio Oriente democratico, con cui Tel Aviv possa trattare da pari a pari, o può spendere la sua influenza a favore del Rais, erede di un regime con cui Israele, più di tre decenni fa, firmò il primo, storico, trattato di pace con uno Stato arabo. Attualmente, però, sembra scarseggiare la fiducia in un processo di democratizzazione che liberi l’Egitto da un regime autoritario e, allo stesso tempo, preservi intatta la sicurezza israeliana sul confine sud-occidentale; i commenti, anche sui quotidiani più liberali e progressisti come Haaretz, sono molto scettici, ed è la stessa testata a riferire che dal Ministero degli Esteri israeliano sarebbero partiti dei cabli urgenti alle ambasciate negli Stati Uniti e nei principali paesi europei, con istruzioni precise affinché i diplomatici facciano pressione sugli Stati che li ospitano, ricordando l’importanza della stabilità del regime egiziano per il mantenimento della pace nella regione.

DEMOCRAZIA = FRATELLANZA? – I timori israeliani ruotano intorno a una considerazione di realpolitik abbastanza semplice e intuitiva: in un Egitto propriamente democratico, le elezioni non sarebbero decise dai voti degli studenti universitari o degli intellettuali cairoti, ma dai milioni di egiziani degli strati sociali più poveri, che potrebbero realisticamente dare il loro voto ai Fratelli Musulmani, vera bestia nera agli occhi degli osservatori israeliani, piuttosto che a figure più “moderate” come el-Baradei.  Ma se questo è sicuramente il nucleo della questione, i possibili sviluppi in Egitto acquistano un’aurea ancora più minacciosa, da un punto di vista israeliano, se inseriti nel contesto regionale. Innanzitutto, già da alcuni giorni l’esercito del Cairo non è più in controllo dei valichi con la striscia di Gaza, il cui confine meridionale è, al momento, amministrato unicamente dalle milizie di Hamas. Allargando lo sguardo, in Giordania le manifestazioni di piazza sono iniziate quasi in contemporanea con quelle di Tunisi, e sebbene sia estremamente poco probabile che portino a un cambio di regime, restano di sicuro un elemento potenzialmente destabilizzante per la Giordania, l’unico altro Stato arabo ad aver sottoscritto e rispettato un trattato di pace con Israele.

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LA SCINTILLA LIBANESE – Allo stesso tempo, in Libano un Primo Ministro espressione di Hezbollah, Najib Mikati, è riuscito ad ottenere l’appoggio della maggioranza al Parlamento, realizzando così uno degli incubi per gli esperti di sicurezza israeliani, ossia un intero paese arabo retto da un’organizzazione che Tel Aviv considera terrorista; in ultimo, il Rais siriano Bashar al-Assad rivendica la stabilità del suo paese, in confronto all’Egitto, spiegandola col fatto che, mentre Mubarak intratteneva rapporti diplomatici con gli Stati Uniti e soprattutto con Israele, alienandosi così il sostegno popolare, un errore che Assad si proclama ben attento a non commettere. Guardando a questo scenario, dunque, non stupisce come stia riaffiorando tra l’opinione pubblica e la leadership politica israeliane la pluridecennale paura di un accerchiamento arabo apertamente ostile nei confronti dello Stato ebraico: l’islamismo sembra destinato a farla da padrone nel futuro scenario politico della regione, e gli israeliani cominciano a chiedersi se il loro mantra politico di un Medio Oriente democratico come pre-condizione per una pace stabile e duratura non sia da rimpiazzare con un più approccio più realista, in supporto delle oligarchie e dei regimi autocratici.

L’OSSESSIONE ISRAELIANA – Bisogna però chiedersi se i timori israeliani siano fondati su dati reali o su proiezioni più tendenti all’irrazionalità. È indubbio, infatti, che, nonostante le dichiarazioni di comodo di Bashar al-Assad, le sollevazioni popolari in Egitto abbiano ben poco a che fare con i rapporti tra Mubarak e Israele: le proteste sono veicolo di istanze politiche, sociali, ed economiche, e se anche qualche spunto anti-israeliano è presente, si tratta comunque di voci assolutamente minoritarie. I Fratelli Musulmani, che pur essendo importanti sono comunque parte di un cartello di gruppi politici estremamente variegato, sono consci di questo, così come intuiscono che una eventuale prominenza del messaggio anti-israeliano risulterebbe in un repentino allontanamento da parte di tutti quegli attori politici internazionali che fino ad ora hanno appoggiato, più o meno apertamente, le proteste. E se in Giordania, come spesso ripetuto da analisti ed esperti, le proteste si risolveranno in un’ennesima mossa inclusiva da parte della monarchia Hascemita, che manterrà il potere pur trovandosi costretta ad avallare una serie di riforme sociali, economiche, e politiche, in Libano Hezbollah tenderà molto probabilmente a portare avanti un governo di unità nazionale, con l’appoggio, pur traballante, del maggior numero possibile di partiti e fazioni. Benché Tel Aviv giudichi il movimento sciita come uno dei suoi peggiori nemici, la leadership del Partito di Dio, come quella dei Fratelli Musulmani in Egitto, è ben consapevole del fatto che sarebbe incapace di governare il Libano in autonomia, specialmente nel caso impostasse il suo governo su una linea di scontro aperto con Israele.

Lorenzo Piras [email protected]

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