Quello che accade in Libia è sotto gli occhi di tutti. Al di là dei drammatici eventi di queste ore, proviamo ad analizzare alcuni aspetti fondamentali. Il significato delle parole di Gheddafi, il carattere prettamente politico della rivolta, i rischi dei possibili scenari futuri. In ogni caso, comunque vada a finire, la strada del Colonnello – passato negli anni da leader di uno Stato canaglia a interlocutore ottimale di diversi Stati – è ormai segnata, soprattutto dal punto di vista dei rapporti internazionali
NON SONO IL PRESIDENTE – Durante la trasmissione della BBC in cui si mandava in diretta il delirante messaggio alla nazione del Colonnello Gheddafi, il presentatore legge un comunicato appena arrivato da parte dell’ambasciata libica a Londra, che dice più o meno così: “non chiamatelo Presidente. Gheddafi non è il Presidente ma un Colonnello”. Frase ripetuta dallo stesso Gheddafi nel suo messaggio. E in effetti qui sta tutto il senso della resistenza di Gheddafi nel suo fortino a Tripoli. Forse in pochi lo sanno, ma ufficialmente la Libia non ha un capo di Stato o, appunto, un Presidente e Gheddafi stesso non ha nessuna carica ufficiale. Ciò fa parte della retorica della Jamahiriyya, neologismo che in arabo vuol dire “governo delle masse”, inventato di sana pianta dallo stesso Gheddafi parafrasando la parola Jumhurriyya, che è il termine arabo per “Repubblica”. Gheddafi capo della rivoluzione e, in quanto tale, a suo dire, con il diritto di restare al potere per tutta la vita.
LA RETORICA DI GHEDDAFI – Nel messaggio c’è tutto: lo spauracchio dell’islamismo radicale di stampo qaedista, le minacce ai ribelli di repressione brutale delle proteste, le accuse agli stessi ribelli di essere degli ubriachi e drogati, “ratti” e “scarafaggi”, con tanto di inviti alla popolazione ad andare in piazza e sterminarli, le accuse agli Stati Uniti e all’Italia di aver armato gli oppositori nella città di Bengasi. Di fatto, volendo analizzare il discorso di Gheddafi, si può riassumere in una maniera: ha incitato alla guerra civile. Ha detto ai cittadini di andare a massacrare altri cittadini. Come già fatto altre volte, poi, si è vantato di varie imprese, una su tutte quella di aver portato l’Italia a chiedere scusa per gli anni della colonizzazione e a pagare per quanto fatto patire alla popolazione libica. Fiore all’occhiello della sua retorica piena di fierezza e frasi per il popolo. Un popolo che ora, evidentemente, non ce la fa più.
LA NATURA POLITICA DELLA RIVOLTA – Era già accaduto per la Tunisia e per l’Egitto un fatto simile, vale a dire il carattere non già sociale o economico della rivolta, ma prettamente politico. Le persone sotto la soglia di povertà in Libia sono pochissime, una percentuale non paragonabile agli altri Paesi dell’area; il Pil pro capite libico è paragonabile, a parità di potere di acquisto, a quello di economie come l’Argentina, il Cile o la Russia e superiore a quello della Turchia: tutte medie potenze economiche in via di espansione. Tutto ciò grazie alle rendite petrolifere, che hanno sempre permesso al regime di Gheddafi (non chiamatela presidenza!) di negoziare con la popolazione una sorta di convivenza tranquilla. Invece l’effetto domino tanto millantato è consistito, da Tunisi a Tripoli, nella natura politica e nella volontà, al di là di tutto, di cambiare regime e voltare pagina. Ma tutto ciò ha un costo, e sembra averlo sempre maggiore.
COME IN UN VIDEOGAME – Parlando con un mio collega questa sera, durante il discorso, è venuta fuori una metafora geniale: è come i mostri dei videogiochi, più vai avanti di livello, più il mostro è cattivo ed è difficile da sconfiggere. Prima Ben Ali che scappa, poi Mubarak che resiste un po’ di più, fa prove generali di guerra civile, ma poi cede (o lo fanno cedere), adesso siamo all’apocalisse. Gheddafi non ha usato mezzi termini, con una calma inquietante ha detto che gli insorti saranno tutti giustiziati, ha evocato una nuova Piazza Tienanmen e, forse per chiarire meglio il concetto agli arabi, una nuova Falluja, riferendosi allo scempio effettuato dagli statunitensi nella città irachena nel 2004. Sarà questo, dunque il “quadro” finale del videogioco, l’ultimo “mostro” da uccidere per salvare la principessa? Dopo di che tutto finito? Difficile immaginarsi uno scenario peggiore di quello libico, non tanto per la paura di una guerra civile (che forse, si auspica, non arriverà davvero, perché non vi sono le profonde divisioni che caratterizzavano l’Iraq nel 2003 o l’Algeria negli anni Novanta), ma per la brutalità di un dittatore che, nonostante abbia già ordinato di fatto l’uccisione di centinaia di persone, si dice addirittura bombardate, con tranquillità dice: “Non ho mai usato la violenza, ancora. Ma presto ho intenzione di farlo”.
LA PARABOLA DISCENDENTE – Solo un paio di considerazioni e di scenari: prima di tutto, a quanto pare, in Libia l’esercito non è del tutto passato dalla parte degli insorti, determinando una situazione di spaccamento che, di fatto, potrebbe portare questo conflitto interno ad allungarsi. Allo stesso tempo, la parte orientale della Libia, quella che storicamente sarebbe la Cirenaica, dovrebbe essere nelle mani degli insorti e delle opposizioni e Gheddafi, trincerato nella sua Tripoli, potrebbe già essersi rassegnato a mantenere il potere solo su parte del Paese. Quel Gheddafi che, altra considerazione, ha soldi e armi abbastanza per scatenare un inferno sui manifestanti. Una seconda considerazione è che il Colonnello, comunque vada a finire, ha compiuto la sua parabola discendente, dopo un momento di assoluta gloria. Da regime ufficialmente accusato di appoggiare e finanziare il terrorismo internazionale, quello di Gheddafi ha saputo trasformarsi in regime amico dell’Occidente. Ciò è stato in parte dovuto all’esigenza di combattere quell’opposizione di stampo islamista al proprio interno, che lo ha portato a dare il proprio sostegno agli Stati Uniti nella loro guerra al terrorismo dopo gli attentati del settembre 2001. In ogni caso, da quel momento Gheddafi ha sospeso il programma nucleare e ha abbandonato lo sviluppo di armi di distruzione di massa. Ha chiesto scusa e risarcito le vittime dell’attentato di Lockerbie. Ha stretto le mani dei maggiori leader occidentali e ricevuto perfino la visita di Condoleeza Rice, allora Segretario di Stato statunitense. Ha portato l’Italia alla firma di un trattato storico ed è stato più volte accolto con tutti gli onori a Roma. Ha stretto accordi con la Gran Bretagna ed è diventato un modello di Stato che, da canaglia, passa a diventare interlocutore ottimale. Anche a suon di gas e petrolio, chiaramente, così come di finanza liquida iniettata nelle traballanti economie europee in piena crisi. Tutti amici. E adesso, la discesa della parabola. Dittatore spietato, accusatore di Washington e Roma, sterminatore della propria gente. Perché? Evidentemente nelle sue condizioni non ha nulla da perdere ancora e vuole tentare il tutto per tutto. Ma dopo? Dopo, ammesso e non concesso che rimanga, non troverà più nessuno disposto a stringergli la mano, accoglierlo in casa propria, elogiarlo e baciargli le mani. Neanche quel Primo Ministro italiano che, fino a due giorni fa, aveva dichiarato di “non volerlo disturbare”, mentre il suo Ministro degli Esteri da Roma incalzava la dose, dichiarando che l’Unione Europea non avrebbe dovuto intromettersi. Adesso anche a Roma il vento è cambiato.
Stefano Torelli [email protected]
Sulla rivolta in Libia, leggi anche: L'ora di Tripoli