In 3 sorsi – Le mutilazioni genitali femminili sono un fenomeno largamente diffuso in Sierra Leone. Nonostante il Governo non abbia ancora adottato leggi che proibiscano la pratica, grazie al lavoro di organizzazioni e attivisti locali una nuova consapevolezza circa le conseguenze della pratica sta crescendo, dimostrando alla popolazione sierraleonese che un’alternativa è possibile.
1. VERSO UNA NUOVA CONSAPEVOLEZZA?
Secondo l’UNICEF circa il 90% delle donne sierraleonesi ha subito mutilazioni genitali femminili (MGF), pratica che consiste nella rimozione parziale o totale degli organi genitali femminili, con conseguenze gravi, fisiche e psicologiche. La maggior parte vi viene sottoposta prima di aver compiuto 15 anni. Nel Paese la pratica è strettamente legata ai rituali di iniziazione di società segrete, note come bondo, che rappresentano parte integrante della cultura sierraleonese, e viene effettuata dalle soweis, donne locali per le quali la procedura rappresenta una fonte di sostentamento.
Negli ultimi anni la questione ha acquisito maggiore risonanza grazie al ruolo di organizzazioni e attivisti che si battono per porvi fine. Tra i nomi più noti c’è Rugiatu Turay, attivista sierraleonese, che ha fondato l’Amazonian Initiative Movement nel 2002 con l’obiettivo di eradicare la pratica e promuovere metodi alternativi di iniziazione nelle bondo, favorendo campagne di sensibilizzazione e di educazione relative alle conseguenze delle MGF, mostrando che un’alternativa priva di violenza è possibile. La storia di Turay è solo una delle tante storie di donne che dopo aver subito la pratica si battono per far sì che nessuna bambina debba più subire tale violenza.
Fig. 1 – La diffusione delle MGF in Africa secondo il rapporto UNICEF del 2016 | Fonte: Nederlandse Leeuw, CC BY 3.0 https://creativecommons.org/licenses/by/3.0, via Wikimedia Commons
2. IL QUADRO NAZIONALE
Dei 29 Paesi africani e mediorientali dove le mutilazioni genitali femminili sono largamente diffuse, ad oggi 24 hanno adottato leggi che criminalizzano la pratica. La Sierra Leone non è tra questi. Nonostante il Paese abbia ratificato il Protocollo di Maputo, estensione della Carta Africana sui diritti dell’uomo e dei popoli a tutela dei diritti delle donne, ha espresso una riserva sull’articolo 5, che impone l’obbligo dello Stato di prevenire le mutilazioni genitali femminili adottando leggi che le proibiscano. Una certa riluttanza a integrare una legislazione che vieti esplicitamente le mutilazioni è visibile anche dalla legge relativa ai diritti dei minori, il Domestic Child Rights Act, che è stata approvata solo dopo la rimozione di una clausola riferita alla pratica.
Nel corso degli ultimi anni, principalmente grazie alle campagne di sensibilizzazione di attivisti come Turay, sono stati effettuati alcuni passi importanti per dare maggiore attenzione politica al tema. Nel 2014 la pratica è stata messa al bando temporaneamente per contenere la diffusione del virus ebola. Purtroppo tale misura non ha avuto seguito nel lungo periodo. Nel 2019 il Presidente sierraleonese Julius Maada Bio ha lanciato una campagna, denominata Hands off our girls, per porre fine ai matrimoni in età minorile e alla violenza sessuale, dichiarata emergenza nazionale. Nonostante tali norme non contengano riferimenti espliciti alle mutilazioni genitali femminili, rappresentano un primo passo verso una maggiore consapevolezza circa i diritti delle donne sierraleonesi.
Un segnale di speranza arriva dal Caucus on Female Genital Mutilation, una conferenza promossa dal Parlamento sierraleonese tenutasi per la prima volta il 18 novembre scorso, dedicato al tema delle mutilazioni genitali femminili. Durante l’incontro 34 membri del Parlamento hanno discusso sul fenomeno, lanciando dunque un importante messaggio: rompere il tabù politico che circonda le MGF è non solo possibile, ma doveroso.
Fig. 2 – Un’immagine da una manifestazione per la campagna “Hands off our girls” a Freetown, capitale della Sierra Leone, nel 2018
3. UNA QUESTIONE GLOBALE
Al mondo più di 200 milioni di donne hanno subito mutilazioni genitali femminili. I dati mostrano che tale pratica è diffusa globalmente, con prevalenza in Africa, Medio Oriente e Asia. Motivata da convenzioni sociali e credenze culturali, è generalmente effettuata da figure locali, senza alcuna preparazione in ambito medico. Le conseguenze per chi la subisce passano da infezioni, emorragie, problemi durante il parto e, nei casi più gravi, morte, senza dimenticare il trauma psicologico permanente.
Largamente considerate una grave violazione dei diritti delle donne, l’ONU mira a eradicare le MGF entro il 2030, in linea con il raggiungimento degli Obiettivi per lo Sviluppo Sostenibile. Indubbiamente c’è ancora molto da fare, ma l’attivismo di persone come Turay indica che un cambiamento è possibile, lavorando con le donne direttamente coinvolte e dimostrando loro che abbandonare la pratica non significhi rinnegare la propria cultura.
Alessia Rossinotti
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