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Washington non parla, Baghdad non ascolta

L’Amministrazione statunitense ha ottenuto scarsi risultati nell’arginare la crisi politica in Iraq, aggravata dai recenti successi dell’ISIS.  Anche Baghdad ha le sue responsabilità, con il Governo Maliki che non ha saputo trovare un percorso adeguato a rinforzare le istituzioni irachene.

LA CIA OTTIENE SCARSI RISULTATI – Durante l’occupazione americana, Baghdad era il maggior distaccamento della CIA all’estero. Sul territorio operavano stabilmente circa 700 agenti dell’intelligence statunitense, senza contare tutti gli agenti di collegamento e le fonti all’interno della popolazione irachena. Nel complesso la rete era capillare e ben inserita nel tessuto sociale e politico che si stava ricostruendo. Nonostante la continua diminuzione del numero di unità l’importanza relativa dell’Agenzia è andata crescendo, soprattutto negli ultimi due anni. Come già rilevato nell’articolo “Il risveglio iracheno e la presenza silenziosa americana” , Obama, con una serie di decisioni prese tra la fine del 2011 e il 2012, ha cercato un disimpegno delle Forze Armate regolari e mostrato una preferenza evidente per una presenza più discreta, al posto dei militari in divisa. In primo luogo, il ritiro delle truppe dall’Iraq necessitava un seppur minimo ribilanciamento della presenza americana, per cui può sembrare logico lasciare alla CIA compiti di addestramento, in particolare per le unità antiterrorismo irachene. Inoltre John Brennan, ossia l’attuale direttore della CIA ed ex vice Consigliere per la Sicurezza nazionale di Obama, ha un’influenza non secondaria nello Studio Ovale e, infine, la CIA offre un margine di discrezionalità e riservatezza al Presidente (soprattutto nei confronti del Congresso) che il Pentagono non presenta. Dalla situazione in cui versa al momento l’Iraq non sembra però che l’Agenzia sia riuscita a svolgere al meglio le proprie mansioni. In particolare il lavoro di intelligence ha risentito di tre fattori determinanti.

Il primo è stato il dover sostituire il Dipartimento di Difesa in operazioni e in rapporti personali che ormai avevano una stabilità e un livello di esperienza costruiti nel tempo.

Il secondo fattore è il vuoto creato dalla mancanza di uomini sul campo. La maggior parte degli agenti della CIA non si allontanano da Baghdad e, secondo alcuni, nemmeno dalle mura dell’ambasciata USA, perdendo progressivamente i contatti diretti con le fonti.

Il terzo aspetto, legato ai precedenti, è la sostituzione di tale vuoto da parte di altri attori. Da un lato Maliki ha effettuato vere e proprie purghe all’interno dell’intelligence irachena, eliminando gli elementi fidati degli Stati Uniti, e ha perseguito sistematicamente le fonti americane (non difficili da trovare). Dall’altro l’intelligence iraniana sta colmando lo spazio disponibile con uomini e mezzi messi al servizio del Primo Ministro iracheno nella sua lotta contro gli oppositori politici.

Un elicottero UH-1 iracheno (parte degli aiuti militari USA) in decollo per una missione
Un elicottero UH-1 iracheno (parte degli aiuti militari USA) in decollo per una missione

UNA STRATEGIA INCLUSIVA? – Il disimpegno parziale dal Medio Oriente, iniziato sostanzialmente con il discorso di Obama all’Università del Cairo nel 2009, con il “nuovo inizio” nel rapporto tra mondo musulmano e Occidente, non è stato indolore come previsto. Nell’ottica di medio-lungo periodo dell’attuale Amministrazione, la stabilità in Iraq sarebbe stata salvaguardata dalle sole Forze Armate irachene e il ruolo degli Stati Uniti principalmente di addestramento e coordinamento delle forze e di condivisione dell’intelligence. Come sottolineato in un recente rapporto del Center for Strategic and International Studies (CSIS), i militari iracheni rappresentano sia un percorso verso la stabilizzazione del Paese sia una minaccia ad essa.

I maggiori problemi riguardano gli alti livelli di corruzione che si registrano all’interno delle forze di sicurezza, il legame di crescente dipendenza dall’ufficio del Primo Ministro e della proporzione che rappresenta la componente sciita e, infine, l’utilizzo dell’esercito per reprimere ed eliminare dalla scena politica gli elementi dell’opposizione.

Il programma, il cui obiettivo era scandito dalla frase “shaping Iraq’s security forces”, non è sufficiente per garantire la stabilità del Paese. Deputati e membri del Governo statunitensi erano a conoscenza delle possibili conseguenze dell’emarginazione sunnita ad opera di Maliki. Durante un viaggio a Washington in previsione delle elezioni dello scorso aprile, il vice Primo Ministro (e principale avversario di Maliki) Saleh al-Mutlaq insistette molto su un diverso approccio della politica americana alla questione irachena. Ad elicotteri e missili forniti dagli USA al Governo iracheno (utilizzati non solo per colpire i campi di addestramento di terroristi e militanti dello Stato Islamico), al-Mutlaq opponeva una soluzione politica che avrebbe dovuto portare ad un maggior equilibrio tra la componente sunnita e quella sciita in tutti i livelli istituzionali e amministrativi. Inoltre diverse relazioni presentate al Congresso e alla Casa Bianca evidenziano una stretta relazione tra la formazione e addestramento delle forze di sicurezza, l’inclusione sia nell’esercito sia nel Governo di una reale presenza sunnita e la stabilità ed integrità dell’Iraq. In particolare la testimonianza di Brent McGurk, il 5 febbraio 2014, davanti al comitato permanente sugli affari esteri della Camera, è stata importante per far capire che la maggior parte della componente sunnita sarebbe disposta a resistere alle pressioni dello Stato Islamico con le giuste garanzie di una ricompensa in termini politici (un peso concreto nel Governo del Paese), ma che non è certo nei piani del Primo Ministro Maliki.

A una visione con un respiro di medio periodo è necessario accostare però le sfide immediate che l’Amministrazione americana deve affrontare. Un dibattito, reso ancor più confuso dalla trasversalità partitica delle soluzioni proposte, si è acceso negli ultimi sei mesi a Washington ma non sembra arrivare ad un punto di incontro che permetta un’azione univoca e risolutiva.

MISURE NEL BREVE PERIODO – Le opzioni a disposizione del Presidente Obama non sono molte. L’invio di ulteriore personale militare è una possibilità che si è concretizzata già da metà giugno, con l’invio prima di 300 consiglieri militari, con il compito di addestrare e coordinare le forze militari irachene, in linea con l’obiettivo della presenza americana sul territorio. Con l’intensificarsi dei combattimenti Obama ha poi deciso di inviare altri 200 soldati che, secondo alcune lettere che il Presidente ha scritto al Congresso, sarebbero stati equipaggiati di elicotteri e droni per garantire la sicurezza dei cittadini americani in Iraq. Le unità delle Forze Armate statunitensi ufficialmente dispiegate in territorio iracheno sono circa 775, di cui quasi 500 sono impiegate per difendere l’ambasciata americana e l’aeroporto di Baghdad. Inoltre, secondo il Dipartimento di Stato, un piccolo numero di persone dello staff dell’ambasciata sono state indirizzate verso i consolati americani di Erbil nel nord e Basra nel sud del Paese. Nella sostanza però gli obiettivi delle forze dipendenti dal Pentagono rimangono limitati ad addestramento e protezione (di proprietà e cittadini americani). Più complesso risulta analizzare la situazione della CIA per via dell’assenza di documenti ufficiali pubblicamente consultabili. I deputati del Congresso lamentano una scarsità di informazioni, senza le quali è difficile prendere decisioni di merito. In generale l’aumento del personale statunitense in Iraq potrebbe far recuperare parte del terreno perduto anche ai reparti dell’intelligence.

Un’opzione molto più difficile da realizzare sarebbe un intervento diretto contro lo Stato Islamico. È da escludere un intervento consistente di truppe di terra (le dichiarazioni di Obama sono chiare in questo senso), Restano comunque molto complesse da portare a termine anche operazioni di forze speciali e velivoli a pilotaggio remoto. In effetti, da un lato la reticenza del Presidente e di correnti trasversali all’interno del Congresso limitano fortemente il ruolo del Dipartimento di Difesa, dall’altro si sta delineando un trade off sempre più marcato tra il supporto al Governo Maliki, attraverso la fornitura di consulenze, armi e mezzi, e la stabilità e pacificazione dell’area. Proprio la gestione del caso Maliki è diventata prioritaria nell’agenda americana, finanche di breve periodo, poiché le pressioni di una parte dell’Amministrazione USA per le sue dimissioni non sembrano sortire alcun tipo di effetto. Maliki è intenzionato a consolidare il proprio potere, forte della vittoria alle elezioni di questa primavera, e non fare concessioni verso un Governo di unità nazionale comprendente sunniti e altre forze d’opposizione nel Paese. Gli sforzi americani per recuperare le posizioni perdute all’interno del Paese e per cercare di coinvolgere le diplomazie della regione sembrano tardivi e insufficienti.

Davide Colombo

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Davide Colombo
Davide Colombo

Sono laureato in Relazioni Internazionali con una tesi sulla politica energetica. Ho frequentato un master in Diplomacy. Mi interesso e scrivo soprattutto di Stati Uniti. Le opinioni espresse negli articoli sono personali.

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