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Una diga…contro la diga

Il progetto di costruire la grande infrastruttura per sbarrare il corso del fiume Irrawaddy, in modo da sfruttare il grande potenziale idroelettrico, è stato per il momento bloccato dal Governo di Yangon. Tensioni interne hanno indotto a questa scelta, ma dall'esterno la Cina preme affinchè venga dato nuovamente via libera ai lavori di costruzione della diga, i cui costi sarebbero sostenuto proprio da Pechino. Il “Caffè” si occupa ancora delle dinamiche geopolitiche in atto nella penisola indocinese

DIGA..SBARRATA – E’ il trenta settembre quando il governo del Myanmar annuncia un cambio di linea che finisce sulle pagine di tutte le maggiori testate. La costruzione della grande diga di Myitsone, che avrebbe dovuto sbarrare la strada dell’Irrawaddy – il fiume che in qualche modo segna l’anima del Paese- viene sospesa. Il presidente Thein Sein ha escluso che i lavori possano riprendere prima della fine del suo mandato, che scadrà nel 2015. Il progetto da 3.6 miliardi di dollari fa capo alla compagnia cinese China Power Investment Corp, e l’elettricità prodotta (circa 29,400 milioni di kilowatt-ora) dovrebbe essere trasferita quasi interamente alla Repubblica Popolare. Benché il sud-est asiatico non sia nuovo alla costruzione di mega-impianti idroelettrici, il caso della diga di Myitsone presenta alcune peculiarità. Innanzitutto sarebbe la prima ad essere costruita sull’Irrawaddy, in un Paese che sfrutta solo una piccolissima parte del suo potenziale idroelettrico. In secondo luogo, il governo che ha chiuso la porta in faccia alla China Power Investment Corp è tradizionalmente considerato un “amico “ della Cina. Il Myanmar, infatti, intrattiene stretti rapporti economici con Pechino. A riprova basti citare i lavori per la costruzione di un oleodotto che collegherà il golfo del Bengala alla provincia dello Yunnan e che permetterà alla Cina di bypassare l’insidioso stretto di Malacca. PERCHE' NO – Riguardo alle motivazioni che hanno spinto il governo verso questo gesto vanno fatte alcune riflessioni. In primo luogo va considerato il momento di transizione che sta vivendo il Paese. Solo lo scorso marzo il potere politico è passato dalle mani della giunta militare a quelle del governo civile (si potrebbe discutere se solo formalmente, quando si pensi che lo stesso presidente è un ex-generale) che ha cercato in più modi di dimostrare un cambiamento di rotta. Probabilmente, dietro alle recenti aperture si cela l’obiettivo di veder terminare le sanzioni volute dai paesi occidentali che deprimono l’economia locale. Dal momento che la costruzione della mega-diga aveva suscitato le paure di ambientalisti e dell’opinione pubblica, è possibile che il governo consideri questa come una dimostrazione di buona volontà verso la comunità internazionale. The International Rivers Network, un gruppo ambientalista,  aveva infatti affermato che la diga, oltre a sommergere vaste aree boschive, potrebbe cancellare siti storici e danneggiare le comunità a valle che sopravvivono grazie alla coltivazione del riso. Ed è un segnale importante che anche il premio nobel per la pace Aung San Suu Kyi si sia spesa per opporre il progetto. Senza voler alimentare dietrologie, è inoltre interessante osservare che appena il giorno prima il ministro degli esteri Wunna Maung Lin si era incontrata a Washington con Derek Mitchell, il neo-nominato inviato degli Stati Uniti per il Myanmar. Viene da chiedersi se l’argomento non sia stato discusso. D’altro canto, nel dare una spiegazione agli eventi non si può prescindere dai rapporti di forza all’interno del Paese. Il Myanmar è una terra divisa da attriti etnici che ha conosciuto momenti di tensione e profonde violenze. La costruzione della diga di Myitsone è andata incontro all’opposizione di una delle principali minoranze etniche nazionali, i Kachin. Dotati di una propria milizia e ostili all’amministrazione centrale, i Kachin considerano la costruzione della diga come una minaccia e l’hanno veementemente ostacolata. Forse non è un caso che gli scontri fra l’esercito birmano e quello indipendentista si siano intensificati nei giorni precedenti la dichiarazione. In ogni caso, appare chiaro che ogni progetto in un paese solcato da così grandi divisioni sia suscettibile di minare i particolari interessi di qualcuno e di suscitare così reazioni anche violente. Il governo non può non tenerne conto.

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LA REAZIONE DI PECHINO – La notizia ha infiammato la dirigenza della compagnia, il cui general maneger Lu Qiazhou ha dichiarato che se la decisione di sospendere i lavori dovesse rivelarsi dfinitiva si potrebbe aprire una causa legale. Lu ha anche aggiunto che entrambe le parti soffrirebbero “perdite incalcolabili” a causa dell’interruzione. Che un simile cambio di linea fosse duro da digerire per chi investiva nel progetto non è difficile da comprendere. Anche per la diplomazia economica cinese non è stato un giorno di gaudio. Stando a quanto dichiara l’agenzia di stampa Reuters, Pechino continua a premere perché la decisione venga modificata ed i lavori siano condotti in porto. Si tratta di un investimento importante che non solo costituisce un tassello dei progetti cinesi in Myanmar (altre sei dighe sono in attesa di essere costruite), ma si tratta anche di un elemento nel più vasto panorama degli investimenti idrici legati al sud-est asiatico. Incoraggiante, per Pechino, è che il governo del Myanmar avrà bisogno del grande vicino se vorrà risollevarsi dalla povertà, e che anche un fallimento su questo versante probabilmente non danneggerebbe in profondità le relazioni bilaterali. Il commercio fra i due paesi lo scorso anno è cresciuto di oltre 4 miliardi di dollari e gli investimenti cinesi hanno superato i 12 miliardi. Il Myanmar non può permettersi di rinunciare ad una simile fonte di ricchezza nemmeno di fronte ai crescenti sentimenti di ostilità verso il potere economico cinese. Pechino, in altre parole, ha il tempo dalla sua. Michele Penna (da Pechino) [email protected]

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