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Questa strada non s’ha da fare

Dopo mesi di discussioni, polemiche e manifestazioni represse con la forza, il Presidente boliviano Evo Morales ha ufficialmente annullato il progetto di costruzione dell’autostrada amazzonica. Nelle intenzioni di Morales e del suo omologo brasiliano Dilma Rousseff la strada avrebbe dovuto collegare la città brasiliana di Manaus con la Bolivia, e da qui raggiungere i porti sul Pacifico. Ecco tutti gli interessi in gioco, dalle esigenze commerciali del Brasile alla difesa dei diritti delle comunità indigene

IL PROGETTO – Il progetto di autostrada transamazzonica vede il Brasile come principale finanziatore. Lo sviluppo brasiliano e la sua volontà di ascendere al rango di potenza mondiale passano inevitabilmente da uno sviluppo dei rapporti coi vicini, da promuovere anche e soprattutto a livello commerciale. In questo senso, l’America Latina sconta storicamente un problema infrastrutturale che ha da sempre limitato i commerci fra i paesi del continente. Le grandi distanze (il Brasile da solo copre una superficie maggiore di quella dell’Europa) e i formidabili ostacoli naturali come la foresta amazzonica e la cordigliera delle Ande hanno provocato uno sviluppo dei commerci interno e via mare più che intra-continentale. Sotto questo aspetto, l’apertura del canale amazzonico avrebbe intensificato gli scambi tra i due paesi, ma anche avvicinato le merci brasiliane ai porti del Pacifico ed al commercio con l’Asia: dal 2009 la Cina ha superato gli Stati Uniti come principale partner commerciale del Brasile. In ottica boliviana, l’autostrada assicurava un collegamento diretto con il Brasile ed un abbattimento dei costi di trasporto delle materie prime boliviane. LE PROTESTE INDIGENE – Nonostante gli indubbi vantaggi commerciali che il progetto avrebbe portato al Paese nel suo complesso, il ramo boliviano tra Cochabamba e San Ignacio de Moxos avrebbe dovuto tagliare a metà il parco nazionale Isiboro Secure, area naturale protetta per la sua biodiversità, riconosciuto come territorio indigeno fin dal 1990. Le 16 comunità indigene della zona avevano quindi avviato ad agosto una serie di proteste, culminate in una marcia di 500 km verso la capitale La Paz e repressa con la forza dalla polizia a Yacumo. A seguito degli scontri, in cui era morto un bambino di 4 anni a causa delle intossicazioni da lacrimogeni, il ministro della difesa Cecilia Chacon e quello dell’interno Sacha Lorenti si erano dimessi, l’una per protesta e l’altro per le polemiche scaturite dalla repressione della manifestazione. A dispetto dell’eterogeneità del Paese andino, le varie basi sociali si sono quindi saldate in protesta contro il governo centrale: il sindacato ed i vari movimenti civici ed indigeni, ed addirittura vari esponenti del partito di Morales, il Movimiento al Socialismo (MAS), avevano espresso solidarietà agli indigeni del Parco, condannando le violenze governative e minacciando di passare all’opposizione

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L’ANNULLAMENTO DELL’AUTOSTRADA – Propri gli scontri e le proteste provenienti dalla sua stessa base elettorale sono state fra le ragioni dell’annullamento del progetto: lo stesso presidente Morales ha annunciato nei giorni scorsi l’intangibilità del parco e la difesa della pachamama, la madre terra, scusandosi per le violenze di cui lui stesso si è definito vittima, attribuendole indirettamente al dimissionario ministro dell’interno. D’altra parte, il consenso per il presidente si stava rapidamente erodendo, dato che il progetto andava ad intaccare proprio la difesa dei diritti indigeni che avevano garantito l’elezione al primo presidente indio della storia della Bolivia. Allo stesso tempo, l’ambasciatore brasiliano a La Paz ha chiesto al governo boliviano di definire un tracciato alternativo, pur nel rispetto della biodiversità del Parco e delle comunità indigene che lo abitano. A protestare per l’annullamento sono ora soprattutto i produttori di foglie di coca ed i loro sindacati, i cocaleros, di cui Morales faceva parte: l’autostrada avrebbe migliorato i commerci della ragione e favorito il suo sviluppo economico.

Francesco Gattiglio [email protected]

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