In 3 Sorsi – L’Africa è ritenuta il nuovo paradiso dell’industria della birra, considerando che nel continente questa frutta quasi il 50% in piĂą che in altre parti del mondo, un’importante occasione per l’agricoltura africana a patto che i progetti di cooperazione siano guidati dalla trasparenza.
1. UNA BEVANDA PER TUTTI
Dal periodo coloniale a oggi l’Africa non ha mai rinunciato alla birra. Alcune semplici caratteristiche la rendono intoccabile: contiene alcool, disseta, costa poco e lo strato di zucchero che si sedimenta sul fondo (soprattutto nelle birre casalinghe) riempie lo stomaco anche di chi ha ben poco di cui nutrirsi. Non ci si deve stupire, dunque, se nel paniere di molti africani, anche in condizioni di povertĂ , compare la birra. In particolare nell’Africa subsahariana esiste un vero e proprio culto della birra, considerata da alcuni “schiuma sacra”. In Burundi, per esempio, viene data un po’ di birra ai neonati affinchĂ© crescano forti e le madri la bevono assiduamente convinte che faccia bene al latte. In Nigeria, invece, si è persuasi del fatto che la birra difenda dalle malattie e migliori le prestazioni sessuali. Da sempre l’Africa vanta una vasta ed eterogenea produzione di birra casalinga, piĂą torbida e scura rispetto a quella industriale e diffusasi soprattutto quando, durante il periodo coloniale, quella importata dall’Europa era destinata solamente all’Ă©lite coloniale, ritenendo piĂą prudente non venderla alla popolazione locale per evitare che la diffusione di alcol creasse disordini. Inutile dire che, una volta stimati i potenziali guadagni derivanti dalle tasse sull’alcool, la birra chiara ed europea divenne una bevanda per tutti.
Embed from Getty ImagesFig. 1 – Un’immagine da una linea di imbottigliamento in uno stabilimento InBev in Nigeria
2. VARIABILI AFRICANE
Il business della birra continua a crescere, notevolmente sostenuto da una variabile tipicamente africana: una popolazione in rapido aumento per lo più composta da giovani, principali consumatori di alcool (in Kenya, ad esempio, i ragazzi hanno una marca preferita di birra molto prima di aver raggiunto l’età legale per consumare alcool). Negli anni Cinquanta fu stimato che il 25% degli introiti di un africano venissero indirizzati all’acquisto di birra e negli anni Settanta il Continente rappresentava circa un terzo della produzione totale di birra. Sulla scia di questo successo alcuni Stati hanno richiesto alle multinazionali sul territorio di utilizzare materie prime locali e non importate per la produzione della bevanda, al fine di stimolare il settore dell’agricoltura. L’attenzione ricadde sul sorgo, un cereale africano simile al mais, senza glutine e molto resistente alla siccità . Cominciò allora una sorta di “corsa al sorgo”, per la quale molti agricoltori africani, incantati dal potenziale guadagno, cambiarono le proprie coltivazioni in favore del cereale. In Ruanda, Sierra Leone, Uganda, Mozambico, Burundi e Nigeria le multinazionali hanno stipulato contratti di collaborazione con i piccoli agricoltori locali, aumentando così le loro possibilità di impiego, di guadagno, di istruzione, di ottenere fondi per nuovi investimenti e di vendere un prodotto che, fino a quel momento, nessuno comprava nel mercato locale, noto solamente per essere “il raccolto del povero”. Qui, però, cominciano i problemi.
Embed from Getty ImagesFig. 2 – Brian Skosana e la figlia Cuthu sono i fondatori della Airport Craft Brewers, di Johannesburg, la prima birreria in un aeroporto in Africa
3. ‘TRANSPARENCY IS BEAUTIFUL IF YOU HAVE NOTHING TO HIDE’
Se in un primo momento si assisté a uno scenario win-win, dove entrambe le parti guadagnavano, presto la situazione si capovolse. La repentina trasformazione di molte (troppe) coltivazioni di sussistenza per la produzione di cibo a piantagioni di sorgo provocò una drastica riduzione delle scorte alimentari seguita da un incremento del 20% sul prezzo dei beni di prima necessità , rendendoli inaccessibili per moltissime famiglie e inasprendo l’insicurezza alimentare. Altre due questioni, poi. In primo luogo, cosa significa “materia prima locale”? Si può considerare “locale” un prodotto importato da un Paese africano all’altro o un prodotto che prima di essere impiegato nella produzione di birra ha percorso migliaia di chilometri? Le distanze, in Africa, possono essere immense anche all’interno di un singolo Paese. Heineken, essendosi posta l’obiettivo di arrivare nel 2020 ad acquistare localmente almeno il 60% delle materie prime per produrre la propria birra africana, ha dichiarato che il 12% di queste è importato da un altro Paese africano: una birra prodotta in Ruanda fatta con orzo proveniente dall’Egitto è birra locale ruandese o egiziana? In secondo luogo cosa succede se la multinazionale decide di abbandonare il progetto o di comprare meno sorgo di quanto pattuito? In Burundi, nei primi quattro anni di collaborazione, Heineken ha acquistato meno del 5% delle cinquemila tonnellate di sorgo previste dal contratto, senza alcun risarcimento (come riportato da O. Van Beemen in Heineken in Africa, la miniera d’oro di una multinazionale europea). La tutela dei lavoratori del primo settore dovrebbe essere l’ovvia conseguenza di una doverosa comprensione della realtà in cui si opera da parte degli enti promotori di progetti. Elevate quantità di sorgo invenduto possono far soffrire l’agricoltura africana tanto quanto guerre, epidemie, cambiamenti climatici o attività terroristiche (in Nigeria l’impatto negativo dell’organizzazione terroristica Boko Haram sui raccolti ha fatto lievitare il prezzo del sorgo causando, in parte, la carestia del 2017) e non tenerne conto significa accompagnare quella parte di popolazione nelle braccia dell’insicurezza alimentare.
Francesca Carlotta Brusa
“Habesha Beer Truck” by Rod Waddington is licensed under CC BY-SA