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Tutto calcolato

A metà novembre gli Stati Uniti hanno lanciato la loro nuova strategia per l’area del Pacifico, che prevede, tra le altre cose, l’invio di 2500 marines in una base nel nord dell’Australia. La decisione aveva irritato Pechino, ma i toni non erano diversi da situazioni simili del passato. Martedì scorso Hu Jintao ha innalzato a ben altro livello lo “scontro” verbale con gli Stati Uniti, esortando la propria marina ad “accelerare il proprio sviluppo” e a “prepararsi alla guerra”. Cerchiamo di capire quanto di retorico e quanto di vero ci sia dietro tutto ciò

 

UNA RELAZIONE COMPLESSA – Che il rapporto tra Cina e Stati Uniti sia problematicamente complesso, e che le azioni in politica estera prese da un lato creino fibrillazioni nell’altro, è cosa ben nota da tempo. Ma ciò che Hu Jintao ha pronunciato martedì 6 dicembre di fronte alle forze della marina (PLAN, People Liberation Army Navy) sembrerebbe un’escalation della tensione piuttosto seria. Intendiamoci, non si corre il rischio di una guerra tra le due superpotenze. Ciononostante, la frase di Hu impone una riflessione sull’intensificarsi delle relazioni geopolitiche sull’intero scacchiere asiatico. Se l’invio dei soldati in Australia rappresenta la piĂą ampia espansione delle forze militari statunitensi in Asia dai tempi del Vietnam, si tratta anche della prima volta che Pechino, per bocca del suo presidente, pronuncia parole così esplicite. Forse troppo. Il discorso di Hu arrivava alla vigilia del dodicesimo incontro annuale tra ufficiali dei due rispettivi eserciti, dove si discutono le questioni di maggiore attrito tra i due paesi, dalla vendita di armi a Taiwan al Mar Cinese del Sud. Forse anche per questo l’amministrazione Obama ha minimizzato le parole del presidente cinese.

 

L’AZIONE AMERICANA – Nel rapporto diretto con Pechino, la strategia di Washington è di mantenere un rapporto non conflittuale – su questa linea la decisione dello scorso settembre di non vendere a Taiwan i moderni F-16 C/D, ma di optare per il solo ammodernamento dei jet già in dotazione alle forze taiwanesi – memori del congelamento delle consultazioni in campo militare tra i due paesi per tutto il 2010, causa episodio analogo di vendita di armamenti a Taiwan. La Cina è paese in ascesa e di crescenti interessi strategici, soprattutto dal punto di vista territoriale. Le parole di Hu sembrano mirate a sostenere questi interessi (sovranità sul Mar Cinese del Sud) e di dare una risposta “adeguata” alle mosse strategiche degli Stati Uniti nel Pacifico. Lo scorso novembre, Washington ha messo in atto un’azione su larga scala in Asia Orientale, con l’obiettivo di rassicurare i partner dell’area sul suo impegno nel Pacifico. “Nell’area dell’Asia-Pacifico, nel XXI secolo, gli Stati Uniti ci sono e ci staranno”, così si è espresso Obama il 17 novembre scorso di fronte al parlamento australiano. La strategia era stata anticipata in un articolo intitolato “America’s Pacific Century” (il secolo americano nel Pacifico) scritto dal Segretario di Stato americano, Hillary Clinton, e apparso sul numero di novembre della rivista Foreign Policy. Dove si afferma l’importanza strategica per gli Stati Uniti di quell’area per i decenni a venire. A metà novembre Obama, prima con il lancio di una zona di libero scambio, che darebbe vantaggi agli alleati americani nella regione (escludendo la Cina) e, poi, con la decisione di inviare 2500 marines in una base nel nord dell’Australia, ne ha messo in pratica i principi. Per fare in modo che il segnale giungesse a destinazione, l’azione statunitense ha assunto una certa enfasi quando la Clinton in visita nelle Filippine ha tenuto un discorso a bordo di una nave da guerra americana.

 

 

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TENSIONI – Che le frasi di Hu e l’azione statunitense alzino la tensione in un’area già surriscaldata dalle preoccupazioni per l’ascesa cinese, è evidente. Inoltre, esiste il rischio che s’imbocchi lo stretto sentiero che porta dritto ad una situazione da “Guerra Fredda”. Allo stesso tempo, però, è importante notare come le mosse sino-americane, rispondano, se non interamente, almeno in buona parte, a logiche interne ai rispettivi stati. L’amministrazione Obama si sta preparando alle elezioni dell’anno prossimo, così come la quarta generazione di leaders cinesi è pronta per il passaggio di consegne a quella successiva, la quinta. Sono momenti delicati in entrambi i paesi. Fin dai tempi di Bush senior è abbastanza normale che si usino toni forti e si ostenti sicurezza nei confronti della Cina. Aggiunge voti. E Obama non sarà un’eccezione. Anche se bisogna sottolineare che la “politica cinese” di Obama ha seguito un percorso inverso rispetto ai suoi due predecessori: accomodante a inizio mandato e più deciso verso la fine. Ne è prova la dura presa di posizione nei confronti della Cina di Bush figlio a inizio mandato, e il continuo rinvio della vendita di armi a Taiwan negli ultimi due anni in cui è stato al comando, desideroso di non interrompere la luna di miele instaurata con Pechino nel corso degli anni. Commessa poi passata di mano agli uomini di Obama, con le relative conseguenze. Ciò è ancora più vero sul lato cinese. Storicamente, in Cina, la successione al potere è sempre stata un passaggio molto delicato fin dai tempi dell’età imperiale. L’eterna paura dell’instabilità, del caos, della mancanza di una guida stabile, ha creato sempre forti reazioni. Le parole di Hu, rientrano in questo quadro. Pronunciate per riscaldare gli animi ai settori più nazionalisti della società cinese e per dimostrare che la Cina sa il quando e il come rispondere alle minacce provenienti dall’esterno (vere o presunte che siano). L’obiettivo è di dimostrare che il potere è saldo nelle mani della nomenclatura comunista in una fase di potenziale instabilità, come il passaggio di potere a Xi Jinping e Li Keqiang.

 

Insomma, tutto calcolato.

 

Marco Spinello

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