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Geopolitica del Sinai (III): riverberi regionali

Questo terzo capitolo cerca di spiegare perché l’intera regione del Levante sia coinvolta dalla crisi sinaitica, e come questa stia influenzando gli sviluppi futuri delle relazioni statali e non solo.

La prima parte della nostra analisi si era concentrata sulla descrizione del panorama jihadista osservabile nella penisola del Sinai, mentre la seconda parte si è focalizzata sulle posizioni degli attori interni all’Egitto (quali partiti, società civile e governo) nei confronti della difficile situazione in loco.

(Rileggi la prima e la seconda parte)

 LA COOPERAZIONE CON ISRAELE – Israele è senza dubbio lo Stato più direttamente coinvolto dalle politiche di counter-terrorism e messa in sicurezza del Sinai. L’attuale crisi sta infatti configurandosi come un pretesto per gettare le basi di stabili piani di cooperazione in ambito di sicurezza fra Israele ed Egitto. La strategia del Cairo è in gran parte sovrapponibile all’agenda anti-terroristica di Tel Aviv, che si è appunto mostrata favorevole ai piani di al-Sisi, soprattutto per quanto riguarda la segregazione della Striscia di Gaza tramite la creazione di una buffer-zone e la distruzione dei rimanenti tunnel. Israele ha approvato il dispiegamento di truppe dell’esercito egiziano nella regione (dal 1979, anno in cui l’Egitto ha ufficialmente riconosciuto lo Stato Ebraico in cambio del ritiro delle truppe israeliane dalla penisola sinaitica, un trattato di pace fra le due parti ha impegnato l’Egitto a richiedere il permesso a Israele prima di poter dirigere le Forze Armate nel Sinai), permettendo persino al vicino meridionale di oltrepassare i limiti previsti dall’Accordo di Pace, oltre che di usufruire degli elicotteri americani Apache. Alcuni funzionari israeliani hanno dichiarato che il dialogo e la cooperazione fra Egitto e Israele non sono mai stati tanto efficienti quanto oggi, e diverse fonti parlano di una collaborazione fra gli apparati di intelligence dei due Paesi, facendo riferimento soprattutto all’unità speciale dello Shin Bet istituita nel 2011 appositamente per sorvegliare il Sinai.

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Fig.1 – Il presidente al-Sisi e il Ministro degli esteri egiziano Sameh Shokri presenziano alla Gaza Donor Conference nell’Ottobre 2014

LA QUESTIONE PALESTINESE – In un clima di gioco a somma zero fra istituzionalizzazione e jihadismo non c’è margine di vittoria per gli abitanti della Striscia di Gaza, accusati di supportare le cellule terroristiche ivi operanti. Sulla scia dell’ultimo conflitto fra Gaza e Israele, i palestinesi si sentono traditi dalle parole e soprattutto dalle politiche di al-Sisi, ritenendo il rais disinteressato ai loro bisogni di natura politica e umanitaria, ma attento solo alla ricerca di un capro espiatorio. La creazione della già citata buffer-zone sta inoltre interferendo con i piani di ricostruzione della Striscia: la zona-cuscinetto, che sarà attiva per tre mesi, non permetterà ai camion di portare a Rafah cemento e ferro necessari ai lavori di riedificazione urbana. L’idea di cambiare i piani di ricostruzione era comunque già stata proposta da Israele, spaventato dalla possibilità che, una volta a Rafah, il cemento e il ferro venissero utilizzati per la costruzione di nuovi tunnel e nuove armi. Se da un lato è chiaro il non appoggio del Cairo a Hamas, risulta meno semplice stabilire i rapporti fra al-Sisi e Mahmoud ‘Abbas. Secondo Majdi al-Khaldi, consigliere diplomatico di quest’ultimo, i due si sarebbero parlati nella giornata di domenica, e il presidente di Fatah avrebbe appoggiato i piani egiziani assicurando ad al-Sisi anche il supporto della popolazione della Cisgiordania. Al-Khaldi ha tuttavia aggiunto che il sostegno palestinese all’Egitto è in parte dovuto alla convinzione che così facendo, in futuro, al-Sisi sarà più spronato a una conclusione del conflitto israelo-palestinese a favore dei suoi conterranei.

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Fig.2 – Zona di confine appartenente alla cosiddetta buffer zone, area controversa per il suo impatto sulla ricostruzione di Gaza

GIORDANIA, LIBIA, ARABIA SAUDITA – Il Regno di Giordania è rimasto scottato dagli attacchi dell’ultimo periodo nella penisola del Sinai, e Re Abdullah II si è espresso con dure parole di condanna verso i perpetratori degli attentati. A causa della distruzione di un gasdotto fuori dalla città di al-‘Arish che avrebbe dovuto rifornire il regno hashemita, si procederà nei prossimi giorni all’individuazione di nuove fonti per l’importazione di gas. La Giordania è, nel contesto mediorientale, senza dubbio il Paese arabo con meno minacce di natura terroristica alla sicurezza nazionale, e il suo Ministro della Comunicazione Mohammed Momani ha proposto un’ azione congiunta di tutti i Paesi islamici per l’eradicazione del fondamentalismo, proponendo la Giordania come guida operativa. Le forti misure di anti-terrorismo messe in atto in Egitto potrebbero invece influenzare lo scenario libico: al-Sisi, spaventato da spill-over estremisti in direzione est, sostiene materialmente e logisticamente il Governo di Tobruk, ha mandato alcune unità di counter-terrorism nella città libica e ha prestato le proprie basi aeree per gli attacchi via aria da parte degli Emirati Arabi Uniti contro i miliziani di Alba Libica. Tuttavia la forte repressione dell’ islamismo radicale oggi in corso in Egitto può portare (e in parte già succede) al risultato opposto,  ossia quello di incentivare gli spostamenti di alcuni membri di cellule salafite egiziane verso l’esterno, raggiungendo gruppi con più ampie libertà di manovra. Ma il Paese contro il quale oggi puntano il dito la maggior parte degli analisti è l’Arabia Saudita. I sospetti che le sue politiche di finanziamento e dislocazione di collettivi salafiti potessero espandere la minaccia jihadista erano da tempo stati esposti, tuttavia mai come oggi ne è chiara la ragionevolezza e ne sono visibili i risultati. La monarchia saudita si è però difesa dalle critiche, ampliando da un lato gli sforzi nelle operazioni di anti-terrorismo, e dall’altro mostrandosi contraria alla presunta influenza wahhabita di movimenti quali ISIS e Ansar Bayt al-Maqdis. Alcuni imam e pubblici ufficiali sauditi hanno infatti tentato di spiegare come, in realtà, la natura degli attuali movimenti jihadisti sia kharijita: un tentativo alquanto sterile, visto che in passato AQIM condannò le accuse di kharijismo mosse all’allora al-Qa’ida in Iraq, e più recentemente ISIS ha distribuito i libri di ‘Abd al-Wahhab (fondatore della dottrina wahhabita) sul suo territorio.

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Fig.3 – Il re saudita Abdullah bin Abdulaziz  incontra il  presidente Abdel-Fattah al-Sisi nel giugno 2014

UNO STATO ISLAMICO SENZA FRONTIERE – Nella prima analisi sul Sinai, uscita venerdì scorso, abbiamo tentato di argomentare come Ansar Bayt al-Maqdis sia attualmente molto vicino a ISIS: nella giornata di lunedì è arrivata l’ufficialità della bay’a (“alleanza”) fra i due gruppi. Ma le propaggini di ISIS non conoscono solo Siria, Iraq ed Egitto. Congiuntamente a quella di ABM, si ha avuto la comunicazione di avvenuta bay’a anche fra ISIS e un collettivo yemenita chiamato Mujahideen Yemen, che ha aperto così un terzo fronte nella battaglia jihadista yemenita fra AQAP (riconducibile ad Ansar al-Sharia Yemen) e Houthi. È passata anche inosservata, nella città di Derna, l’apertura di una “colonia” dello Stato Islamico da parte di un piccolo gruppo chiamato Majlis Shura Shabab al-Islam (“Comitato di Consultazione della Gioventù  Islamica”)  che ha recentemente preso potere su alcuni quartieri della città. Sono innumerevoli i gruppi che hanno ormai dato la propria bay’a ad ISIS, ma gli unici ad avere parvenza di territorialità sono i sopracitati. Intanto, su alcuni siti jihadisti filo-ISIS, si inizia già a parlare di Wilayat Sina’ in riferimento al “Distretto del Sinai” (in linea con la suddivisione territoriale operata dallo Stato Islamico) aperto con il contributo di ABM. Ed è esattamente questo il progetto di espansione del Califfato: come si legge su Dabiq, rivista ufficiale dello Stato Islamico, ogni musulmano che non può compiere la hijra (viaggio verso il Califfato) poiché impossibilitato o impegnato in altri jihad, è chiamato ad aprire, quantomeno, un canale di cooperazione con ISIS tramite la bay’a del suo collettivo. Sotto questo punto di vista, la portata della minaccia di ISIS è molto più globale di quanto possa già sembrare in relazione ai flussi di combattenti stranieri.

Marco Arnaboldi

[box type=”shadow” align=”aligncenter” ]Un chicco in più

Per chi volesse conoscere meglio la questione del presunto kharijismo di ISIS e alleati, consigliamo la lettura di questo articolo sul blog Jihadistan curato dall’autore dell’articolo.
Sempre rimanendo in ambito ideologico, è utile notare come i termini salafismo e wahhabismo siano erroneamente il più delle volte sovrapposti. Il salafismo è infatti una corrente di pensiero che storicamente si è ripresentata a più riprese, l’ultima delle quali è il wahhabismo di matrice saudita. Se è sicuramente corretto dire quindi che il wahhabismo è un sotto-insieme del salafismo, è anche giusto affermare che il salafismo moderno sia emanato dal wahhabismo: da qui la fallacia di affermare l’identità fra i due filoni. [/box]

 

Foto: cod_gabriel

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Marco Arnaboldi
Marco Arnaboldihttp://www.jihadistanblog.blogspot.com

Ventiquattro anni, saronnese, mi sono laureato in Relazioni Internazionali (studiando anche la lingua araba) presso l’Università Cattolica di Milano con una tesi sui combattenti europei impegnati in Siria. Sono stato Visiting Student a Siviglia e a Gerusalemme, attualmente frequento una specialistica in Politiche Internazionali. Ho lavorato come analista presso un’azienda di security consultancy, oggi collaboro con alcuni istituti di ricerca e diverse testate italiane. I miei temi di analisi sono il Medio Oriente, l’Islam politico, il jihadismo e l’home-grown terrorism. Da ultimo, curo un sito sul Jihadismo targato IT (www.jihadistanblog.blogspot.com).

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