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Resilienza civile, arma contro il terrorismo

Miscela Strategica – Gli Stati a rischio terrorismo studiano con crescente attenzione la possibilitĂ  di aumentare la resistenza della popolazione ad attentati e attivitĂ  terroristiche. Costruire la “resilienza civile” significa limitare l’impatto di un attacco terroristico sul Paese colpito e, indirettamente, arginare i fenomeni di radicalizzazione interna.

IL TREND ATTUALE – Dopo una fase calante durata circa un decennio a partire dal 2001, dal 2011 il terrorismo internazionale è tornato a colpire duro e il fenomeno è risultato in aumento negli ultimi anni. Molte organizzazioni terroristiche stanno crescendo in dimensione e capacitĂ , ampliando il loro bacino di reclutamento e le loro possibilitĂ  operative, facilitate da un mondo sempre piĂą interconnesso. Il principale filone in tal senso rimane quello del terrorismo di matrice islamica, i cui movimenti hanno oggi sia dimensione locale che globale. In aggiunta al terrorismo internazionale, infatti, fenomeni come quelli dell'”home-grown terrorism” e dei “lonely wolves” (lupi solitari) consentono di attaccare il Paese o i Paesi designati come bersaglio su piĂą dimensioni simultaneamente e in modo sempre meno prevedibile. In aggiunta alle consuete attivitĂ  di contrasto e di reazione rapida al terrorismo, è quindi esigenza crescente da parte degli Stati “immunizzare” la propria societĂ  preparando i cittadini agli effetti di un attentato in modo che essi stessi diventino parte di un sistema coeso contro il quale i gruppi terroristici possano arrecare danni limitati, non solo materiali. Se il panico e il terrore non si scatena e vaste fasce della popolazione agiscono in maniera razionale, l’attacco perde infatti efficacia e, nel lungo periodo, perfino la sua ragion d’essere. Possibile? I piccoli Stati come Israele o Singapore provano a farlo, con risultati incoraggianti. Questi Paesi possono essere considerati dei laboratori di sviluppo delle tecniche di resilienza civile. Applicare politiche così peculiari a territori e popolazioni piĂą vaste sarebbe estremamente complesso, ma non impossibile nel lungo periodo. D’altronde anche soggetti piĂą grandi come il Canada e l’Unione europea hanno giĂ  cominciato a occuparsene a livello teorico e in fase di pianificazione strategica, anche se con pochi risvolti pratici.

TERRORISMO E SOCIETÀ – Le misure riguardanti la società civile non sono concepite per prevenire direttamente gli attacchi, ma per rafforzare la capacità di resistenza strutturale e psicologica agli attacchi terroristici.
In primo luogo, la società civile deve essere ben consapevole di come i fenomeni terroristici si sviluppano, quali sono i punti di forza dei movimenti terroristici, quali i loro obiettivi tattici e strategici. Poca informazione significa grande margine di cattiva interpretazione, con fobie e paure che prendono il sopravvento e che favoriscono quindi lo scopo di un attacco terroristico. La popolazione spaventata e fuori controllo, che magari chiede a gran voce negoziati oppure si affida a partiti politici estremi, è il target ideale per un movimento terroristico che vuole scardinare un determinato tessuto politico o uno spazio geopolitico che considera ostile e/o nemico.
In secondo luogo, una società coesa lascia poco spazio di manovra a cellule terroristiche, che avrebbero difficoltà a nascondersi, trovare supporto operativo e logistico. Si limita inoltre, in questo caso, la possibile insorgenza di fenomeni di radicalizzazione, o comunque se ne restringe il campo di azione.

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Fig. 1 – Donne musulmane manifestano a Madrid contro il terrorismo durante la commemorazione dell’attacco del 2004 

LE MISURE SOCIALI – L’impegno per la costruzione di un sistema resiliente deve essere lento e costante. La continuitĂ  dell’opera di rafforzamento della capacitĂ  diffusa di comprendere e reagire alle tematiche che riguardano la minaccia terroristica è la chiave del successo di questo tipo di strategie. In effetti, la prima basilare misura è la scolarizzazione diffusa, sia tramite il sistema scolastico ordinario che con iniziative dedicate, sui temi che riguardano lo Stato (in termini politologici) e la religione dal punto di vista storico e filosofico, senza trascurare gli aspetti critici e controversi, ma affrontandoli in maniera propositiva. In seguito, la preparazione specifica su come comportarsi in caso di attacco terroristico dovrebbe essere oggetto di corsi per operatori di protezione civile, personale di sorveglianza e privati cittadini interessati. AttivitĂ  di questo genere accrescono la complessiva capacitĂ  di limitare i danni degli attacchi terroristici, ma anche di dar sicurezza alla popolazione sulla tenuta delle proprie Istituzioni di riferimento.
A complemento di tale “vaccino di massa”, gli Stati interessati da fenomeni di radicalizzazione – ad esempio di matrice islamica, ma anche di matrice ideologica – coniugano (o dovrebbero coniugare) di solito programmi specifici di de-radicalizzazione indirizzati a chi milita o ha militato in formazioni radicali o terroristiche. Idealmente questi programmi non dovrebbero essere indirizzati solo ai soggetti da recuperare, ma dovrebbero avere declinazioni varie per avvicinare quanto piĂą possibile le fasce della popolazione possibili prede di ideologie devianti a posizioni moderate e strutturate, lasciando quindi poco spazio a interpretazioni della storia e della societĂ  in chiave antitetica rispetto alla propria posizione sociale.
Infine, il dibattito politico e l’attenzione dei media alle tematiche correlate al terrorismo devono essere costanti, ma non pedanti. In pratica si tratta di innestare il tema nella societĂ  perchĂ© venga discusso e conosciuto, senza creare allarmismi e, per contro, evitando di cavalcare le situazioni critiche come cavalli di battaglia da parte di agenzie di informazione o partiti politici. L’allarmismo, la tensione procurata e l’iper-attenzione verso il problema terrorismo possono essere ottime opportunitĂ  di raggranellare voti o denaro, ma sono meccanismi psicologici controproducenti nella costruzione di una societĂ  resistente agli scossoni che il terrorismo può dare in maniera inattesa.

LE MISURE ECONOMICHE – Rafforzare la resistenza di un sistema-Paese contro il terrorismo significa anche negare la possibilitĂ  di far giacere o transitare fondi destinati a finanziare gruppi terroristici sia in patria che all’estero. La dimensione economica dei principali gruppi terroristici è diventata sempre piĂą importante in questi anni, con soluzioni di reperimento di risorse sofisticate. Questa parte della resilienza civile riguarda piĂą gli organi dello Stato che il singolo cittadino e comprendono provvedimenti come il congelamento di fondi, il tracciamento dei flussi di denaro da e verso aree sensibili, ecc. Non bisogna tuttavia sottovalutare anche il peso delle rimesse che dalla societĂ  civile arrivano, in maniera consapevole o meno, nelle mani dei terroristi tramite associazioni, cooperative, fondazioni. Per fare ancora un esempio legato al trend attuale, questo problema ha riguardato da vicino i Paesi musulmani o che ospitano minoranze significative di musulmani praticanti. Diverse comunitĂ , nel versare la Zakat (il contributo rituale per i musulmani praticanti) a opere di caritĂ  o associazioni umanitarie andavano a finanziare, a loro insaputa, l’Infaq-Fi-Sabilillah, ovvero una forma di sostegno economico del Jihad. Gli importi erano troppo piccoli per poter essere individuati, ma finivano poi in grandi fondi collettori che, quando individuati, si sono rivelati parecchio corposi. Ecco quindi che anche in materia economica la conoscenza da parte della societĂ  di quali mezzi il terrorismo disponga e di come si strutturino i suoi tentacoli rappresenta un’immunizzazione anche economica, a livello micro, a beneficio della decrescita del rischio di subire attacchi terroristici.

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Fig. 2 – Manifestazione contro il terrorismo. La partecipazione popolare e la consapevolezza della minaccia sono ottime basi per la creazione di un meccanismo di resilienza civile 

CRITICITĂ€ – Esempi come quello della cittĂ -Stato di Singapore, che ha ottenuto buoni risultati nel contrasto alla diffusione del proselitismo di Jemaah Islamiyah nei primi anni Duemila, e che appronta oggi nuovi programmi per contrastare il flusso di elementi radicalizzati che partono per Siria, Iraq, Mali o Afghanistan – e che potrebbero anche tornare in patria – non è sempre calzante. Uno dei motivi per cui la societĂ  civile ha risposto in quel caso in maniera positiva e i programmi specifici hanno ottenuto successo è il benessere diffuso e l’assenza di grosse tensioni sociali. Il PIL pro-capite degli abitanti è elevato e i cittadini marginalizzati sono una sparuta minoranza, e quindi un bacino molto piccolo per la diffusione di idee radicali, ma anche per il disinteresse verso i temi riguardanti la protezione della societĂ  civile. Il livello di istruzione segue lo stesso andamento. In un contesto del genere il sistema di creazione e implementazione di un meccanismo di resilienza civile è stato rapido e senza particolari intoppi. In Paesi grandi, con maggiore stratificazione tra classi sociali, con maggiori diseguaglianze e, soprattutto, con fasce di popolazione prive di prospettive e visione d’insieme, gli sforzi in tal senso dovrebbero essere molto maggiori in valore assoluto e di difficile implementazione a costi e tempi ragionevoli. Rimane quindi il valido concetto di base secondo il quale in una societĂ  difficilmente minacciabile con un attacco terroristico, pur efferato e violento, in virtĂą della capacitĂ  diffusa di reagire senza provocare scossoni politici, il rischio stesso di attacco terroristico diminuisca. Tale concetto è però complesso da applicare in modo completo perfino in Paesi grandi che dispongano di buone risorse economiche.

Marco Giulio Barone

[box type=”shadow” align=”aligncenter” ]Un chicco in piĂą

Per chi volesse approfondire alcuni dei temi trattati consigliamo:

Per una prospettiva di insieme sulle tecniche moderne di contrasto al terrorismo suggeriamo inoltre la lettura di Boaz Ganor, The Counter Terrorism Puzzle – A Guide for Decision Makers, The Interdisciplinary Center for Herzliya Projects, 2005[/box]

 

 

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Marco Giulio Barone
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Marco Giulio Barone è analista politico-militare. Dopo la laurea in Scienze Internazionali conseguita all’Università di Torino, completa la formazione negli Stati Uniti presso l’Hudson Institute’s Centre for Political-Military analysis. A vario titolo, ha esperienze di studio e lavoro anche in Gran Bretagna, Belgio, Norvegia e Israele. Lavora attualmente come analista per conto di aziende estere e contribuisce alle riviste specializzate del gruppo editoriale tedesco Monch Publishing. Collabora con Il Caffè Geopolitico dal 2013, principalmente in qualità di analista e coordinatore editoriale.

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