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Da soli non si può, uniti sì (1)

Alti livelli di violenza caratterizzano una regione che negli Ottanta salì alla ribalta internazionale a causa delle sue guerre civili, e oggi lo fa per l’elevata criminalità e l’influenza destabilizzante del narcotraffico. La povertà, l’emigrazione sistematica e una governance spesso difficoltosa complicano la situazione generale. Una politica puramente repressiva non può bastare senza cambi fondamentali nella politica antidroga nei mercati consumatori, in primis gli Usa. Ma un approccio regionale e un maggior interesse della comunità internazionale stanno emergendo. L’America Centrale non può essere lasciata sola in questo frangente

 

UNA REGIONE IN PREDA ALLA VIOLENZA – La regione centroamericana si è caratterizzata negli ultimi anni per un drammatico aumento della criminalità, legato in parte ma non solo ai nuovi flussi del narcotraffico. L’istmo centroamericano è composto da paesi a reddito medio – basso, con la parziale eccezione della Costa Rica e di Panama, paese in pieno boom economico grazie agli introiti derivanti dal Canale, in mani nazionali dal 1999. Il paese più povero è il Nicaragua, che però paradossalmente presenta livelli di violenza e criminalità significativamente inferiori a quelli dei suoi tre vicini del Triangolo Nord: Guatemala, El Salvador e Honduras. Questi tre paesi si contendono il dubbio onore di essere, secondo le statistiche, i paesi più violenti al mondo: secondo recenti dati ONU, che hanno confermato una tendenza ben consolidata, l’indice di omicidi per abitante dell’Honduras (82 per 100.000 abitanti), di El Salvador (66 / 100.000) e Guatemala (41 / 100.000) è tra i più alti al mondo, rivaleggiando solo con l’Iraq. Il Messico, paese sotto la ribalta dei riflettori, ha un tasso di diciotto, che s’innalza su livelli centroamericani in certe zone del nord, specialmente Ciudad Juárez; gli Usa 5, l’Italia 1,23.

 

LE RAGIONI DELLA VIOLENZA – Il livello di violenza nei tre paesi citati è sempre stato alto, sin dai tempi delle guerre civili guatemalteche e salvadoregne, che si sono concluse negli anni novanta, ma si sono ulteriormente innalzati negli ultimi anni, a causa di molteplici fattori: l’eredità appunto delle guerre civili, con la relativizzazione del valore attribuito alla vita umana; la scarsa crescita economica con relativa altissima disoccupazione e sottoccupazione; la pessima distribuzione della ricchezza (questi paesi sono tra i peggiori in questa categoria secondo l’indice di Gini che misura i livelli di diseguaglianza in un sistema economico); l’altissimo tasso d’emigrazione, che sgretola l’unità familiare e che lascia i giovani rimasti a casa in situazione precaria; la debolezza dei governi e l’inefficacia tanto dei sistemi repressivi (polizia) che di quelli giudiziari, che si traducono in livelli d’impunità quasi assoluta (attorno al 98 per cento dei delitti rimangono irrisolti). A tutti questi fattori, di per sé gravissimi, si è venuto aggiungere in questi ultimi anni la presenza crescente del narcotraffico: i successivi Piani Colombia e Mérida, di stampo puramente militare, hanno colpito i cartel prima colombiani e poi messicani, spostando il centro di gravità del traffico verso il primo mercato mondiale di consumo di stupefacenti (gli Usa) da questi paesi a quelli dell’istmo centramericano, che sono divenuti il principale asse di transito dai paesi produttori (Colombia, Bolivia, Perù, il Brasile amazzonico) a quelli consumatori (gli Usa appunto). Chiusa la rotta caraibica, che convogliava la droga in aereo e imbarcazioni verso la Florida, punto d’entrata principale (ricordate Miami Vice?), il traffico ora si fa via terra. I paesi centroamericani, di per sé deboli per tutte le ragioni sovraesposte, si sono trovati alla mercé dei cartel messicani, i veri padroni della nuova rotta di sangue. I cartel principali sono quelli degli Zeta e di Sinaloa, ma la guerra dichiarata dal presidente Calderón con l’aiuto del Piano Mérida, oltre a elevare drammaticamente il numero delle vittime del conflitto armato nel nord del paese, ha spezzettato i clan senza però distruggerli e ha avuto per effetto d’allargare il raggio della violenza ad altre parti del paese, in una spirale che sembra inarrestabile. I cartel messicani si sono anche progressivamente spostati verso paesi deboli, nei quali i loro enormi poteri economici e di corruzione hanno potuto fare facile presa: in primis il Guatemala, paese dalle istituzioni debolissime nel quale intere zone (il Petén, nel nord) sono sotto il controllo diretto dei trafficanti e nei quali lo stato fatica a farsi presente. Recentemente, i cartels hanno cominciato a infiltrarsi anche in Honduras e in El Salvador, mediante accordi con le bande giovanili (maras) che controllano i quartieri meno abbienti delle città e strade – chiave nella “triplice frontiera” tra i tre paesi, attraverso le quali passa la droga. Negli ultimi tempi sono state individuate molteplici tecniche usate dai cartels per far pervenire la droga in Honduras o El Salvador via mare, evitando il Nicaragua, paese nel quale la lotta contro il narcotraffico ha avuto più successo, e da lì risalire verso nord.

 

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GLI EMIGRANTI, VITTIME DESIGNATE – Gruppi delinquenziali si servono dei numerosi emigranti che dall’America Centrale risalgono il Messico per cercare di penetrare negli Usa come burritos“, portatori di droga: l’alternativa a tale servizio è la morte, come succede ogni giorno sulla tragica rotta seguita dagli emigranti: il caso più eclatante fu la strage di Tamaulipas nel 2010, 72 emigranti massacrati in un capannone perché non volevano prestarsi a questo gioco mortale. Ma sono eventi purtroppo frequenti. L’esodo di migliaia di centroamericani verso la terra promessa statunitense lascia dietro di sé una striscia di sangue, violenze d’ogni tipo, soprusi. L’istmo centroamericano e il Messico sono diventati scenari di profonde ingiustizie e sofferenze, una realtà che non può lasciare indifferente la comunità internazionale. L‘approccio armato del presidente messicano Calderón non ha risolto pressoché nulla, dimostrando che la sola repressione non sconfigge i traffici illegali (ma aumenta vertiginosamente la spirale di violenza). L‘amministrazione Obama si è resa conto che il Piano Mérida ha avuto come effetto quello di spostare la pressione sui paesi dell’America centrale, e ha deciso di deviare una parte dei fondi, per la verità piuttosto limitata (200 milioni di dollari su 1,6 miliardi) ai paesi dell’istmo (iniziativa CARSI). Ma al di là delle risorse, il problema è che la repressione da sola, o la mano dura, com’è conosciuta nella regione non basta: non è bastata in Messico e non sarà sufficiente in America Centrale.

 

MA LA MANO DURA NON PUÒ BASTARE – Anche supponendo che i paesi della regione riuscissero a utilizzare al meglio e in forma coordinata questi fondi, comunque scarsi, rimarrebbero infatti aperte due anomalie fondamentali:

  1. gli Usa rimangono un mercato di forte consumo di stupefacenti: contro tale consumo, in crescita, è del tutto improbabile che si lanci una vera offensiva: l’attrazione esercitata dal paese più ricco e forte consumatore di droga non può non solleticare gli appetiti dei cartelli delinquenziali, pronti ad affrontare qualsiasi opposizione;
  2. al tempo che primo importatore di droga, gli Usa sono anche il primo esportatore di armi da fuoco, che si acquisiscono con enorme facilità e passano la frontiera con il Messico quasi impunemente, gettando benzina sul fuoco già dirompente delle guerre tra clans. Recenti tentativi dell’amministrazione Obama di limitare questo traffico illegale o di stabilire una tracciabilità delle armi, soprattutto i famigerati AK – 47 utilizzati dai narcos, dal nord verso il sud sono sostanzialmente falliti, boicottati dai grandi interessi occulti e dalle politiche liberistiche in materia a nord del Rio Grande, considerate da molti cittadini Usa un diritto sacro e irrinunciabile. (I. continua)
  3.  

Stefano Gatto [email protected]

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