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L’homegrown terrorism e l’Europa

Il fenomeno dell’homegrown terrorism non è nuovo in Europa. Le origini risalgono agli anni Ottanta, ma gli obiettivi politici e le dinamiche che coinvolgono gli islamisti radicali sul suolo sono cambiati completamente.

L’era di internet e l'”Islam-fai-da te” hanno inoltre modificato il profilo stesso dei terroristi che minacciano le capitali europee.

BREVE STORIA – Non è semplice riuscire a tracciare una storia dell’homegrown terrorism europeo, soprattutto perché la diffusa eterogeneità dei singoli casi si sovrappone alle specificità di ciascun Paese – basti considerare, per esempio, le diverse dinamiche migratorie. Un primo ingresso di jihadisti in Europa si ebbe già negli anni Ottanta, con molti combattenti o simpatizzanti della causa provenienti dal Nordafrica e dal Medio Oriente che ottennero lo status di rifugiati politici. Si trattava, comunque, di un contesto diverso da quello attuale: tra i gruppi estremisti nei vari Paesi spesso non c’erano contatti, mentre era riscontrata una rigida gerarchia interna connessa direttamente alla base centrale. Oltretutto, nonostante l’ostilità nei confronti del modello occidentale, l’obiettivo principale restava l’azione nei rispettivi Paesi d’origine, a meno che non si individuasse un nesso tra lo Stato e la lotta del loro gruppo (per esempio gli attentati organizzati da algerini in Francia negli anni Novanta). La situazione, però, ha subìto una modificazione col nuovo secolo, principalmente per tre ragioni:

  • E’ cambiata la demografia europea: se nei precedenti venti anni i gruppi jihadisti erano composti da immigrati di prima generazione, all’alba del Duemila c’erano già molti musulmani nati e cresciuti in Europa, perfettamente integrati e spesso – non in Italia, dove la legge è diversa – cittadini europei.
  • Numerosi militanti storici erano stati colpiti da provvedimenti d’espulsione.
  • L’avvento di al-Qaida aveva condotto a un superamento della divisione per nazionalità dei jihadisti, in favore di un network unico e sovranazionale ispirato alla comune lotta che i combattenti musulmani avevano condotto indipendentemente dalla propria origine in Afghanistan o Bosnia.

Le cellule europee ebbero un ruolo fondamentale per l’affermazione di al-Qaida, poiché ormai ben inserite nelle dinamiche occidentali e capaci di individuare obiettivi di grande impatto emotivo e mediatico. Non è una caso che gli attentatori dell’11 settembre siano passati da Amburgo. La reazione dei Paesi europei portò a un indebolimento del network di al-Qaida nel Vecchio continente ed è per questo che negli ultimi dieci anni sono cominciati a sorgere – in particolare nel Nord Europa – piccoli gruppi autonomi composti da giovani di cittadinanza europea che cercano di entrare in contatto con le maggiori organizzazioni (tuttora presenti) per recuperare risorse, mezzi, addestramento da impiegare nel jihad all’estero o contro il Paese d’origine.

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Fig.1 – Oggi la radicalizzazione passa spesso per internet e l’Islam-fai-da-te piuttosto che dalle moschee

I COLLEGAMENTI – Individuare il passaggio tra una persona che compie la vita di ogni giorno e un fanatico pronto a uccidere e morire è un’attività complessa e senza riferimenti precisi. Ogni jihadista ha la propria storia alle spalle, cosicché non è possibile tracciare un profilo medio del combattente islamico, né individuare alla sola osservazione un individuo inserito in determinati gruppi. Tuttavia è possibile trovare ambienti che potrebbero favorire fenomeni di radicalizzazione. Al giorno d’oggi è assai improbabile che un soggetto aderisca a una formazione estremistica tramite reclutamento. Non ci sono tanti casi di figure inviate a cercare proseliti e con il preciso incarico di “curare” i giovani per prepararli all’ingresso nell’organizzazione, sulla base del modello di alcuni gruppi nordafricani e mediorientali degli anni Ottanta. A quanto pare, invece, nell’Europa dei correnti anni Dieci la dinamica è diversa: la radicalizzazione avviene spontaneamente, spesso tramite contatto diretto e internet. Molti hanno il primo incontro con contesti radicalizzati tramite conoscenti, ma il percorso all’inizio è soprattutto interiore e psicologico, con la maturazione – vera o presunta – della propria identità di musulmano chiamato al jihad. E non è detto che il percorso sia affiancato da altre figure, anche se i gruppi estremistici hanno quasi sempre un riferimento religioso o giuridico islamico. È interessante notare che in Europa non esista un reclutamento in senso tradizionale, bensì un avvicinamento bottom-top del singolo alla formazione. Ci sono dei facilitatori, che operano con maggiore o minore margine d’azione per individuare soggetti già inseriti in network estremistici o aiutare i jihadisti a raggiungere la Siria o l’Iraq. E, contrariamente all’opinione pubblica, c’è uno scarso contatto con le grandi moschee e una predilezione per la dimensione interna al gruppo.

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Fig.2 – I messaggi e i video di propaganda jihadista vengono veicolati in maniera crescente attraverso la rete

IL RAPPORTO CON LE MOSCHEE – Ci sono episodi di elementi considerati pericolosi che sono stati allontanati (anche pubblicamente) dalle moschee in quanto non graditi – sebbene la denuncia alle Autorità non sia sempre seguita. Allo stesso modo, però, ci sono molti aspiranti jihadisti che frequentano le moschee senza esprimere apertamente le proprie tendenze, proseguendo sul quel cammino di interiorizzazione e segretezza accennato poco sopra. In tal senso essi possono considerare corrotti anche i musulmani moderati. Ci sono esempi di moschee che tollerano e anzi incoraggiano il jihad, ma, paradossalmente, le inchieste in Europa dimostrano che di frequente i terroristi autonomi non frequentano le comunità musulmane (anche per la scarsa conoscenza dell’arabo), oppure preferiscono restare in silenzio dietro lo schermo di quelle moderate. In altre circostanze, invece, gli aspiranti terroristi non fanno mistero delle proprie intenzioni, dichiarando apertamente posizioni violente. Tra l’altro questo è anche uno dei motivi per i quali molti autonomi non riescono a integrarsi nei network maggiori: il loro atteggiamento metterebbe in rischio tutto il gruppo. Ecco quindi che gli aspiranti jihadisti, incapaci di resistere all’interno delle comunità islamiche o allontanati, si ritrovano nel mondo virtuale.

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Fig.3 – La moschea di Poitiers, nella Francia centro-occidentale, è stata oggetto ieri di un incendio doloso. Eppure le moschee non rappresentano più il viatico principale delle idee radicali. 

IL RUOLO DI INTERNET – Stiamo vivendo nell’era del completo fai-da-te: tramite le reti informatiche si cercano ormai tecniche di pittura, ricette gastronomiche, diagnosi mediche, video di predicatori yemeniti, istruzioni per costruire una bomba, tutto posto sullo stesso piano dal livellamento verso il basso e la massificazione della società di internet. Nei vuoti giuridici, nel confine tra libertas e licentia, nel parossismo della circolazione di informazioni a prescindere, gli individui procedono a un autonomo processo di radicalizzazione. Tramite il web si entra in contatto con persone che la pensano allo stesso modo e si accede a materiale dedicato. Ci sono decine di siti, directory, newsletter che permettono il diffondersi dell’ideologica estremistica, sfruttando gli stessi strumenti di persuasione e creazione del bisogno che pure essi ritengono peculiare del declino occidentale – lo Stato Islamico è maestro in questo. La nuova generazione di jihadisti non ha bisogno di conoscere l’arabo, perché è di madrelingua inglese, francese o tedesca, mentre i video dei grandi predicatori sono sottotitolati. Con i social network non è mai stato facile come oggi tenere i contatti, diffondere informazioni e recuperare conoscenze perdute. Ma, per esempio, proprio tramite Facebook emergono molti aspetti interessanti, ossia il doppio binario della vita degli homegrown terrorist o aspiranti tali: magari a fianco del nuovo comunicato di al-Baghdadi è pubblicato l’ultimo video di Beyoncé. L’estremismo diventa anch’esso un aspetto normalizzato da condividere con gli amici, che in qualche occasione cedono al “mi piace” – che, comunque, secondo la Legge italiana è giuridicamente rilevante. Certo, non è detto che da Facebook si passi all’azione (anzi, è molto raro), così come avviene per altri estremismi dilaganti virtualmente, ma il monitoraggio è fondamentale.

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Fig.4 – L’uso dei social networks rivela tratti contrastanti delle personalità dei terroristi

COME AVVIENE LA RADICALIZZAZIONE? – Non è facile da dirsi, perché il percorso è spesso individuale, una sommatoria tra background, propensione e ambiente esterno. Similmente è individuale la scelta di andare a combattere all’estero o di colpire in casa propria, dato che alcuni militanti hanno sostenuto il dovere islamico del jihad in Siria, ma la necessità islamica di non attaccare i civili occidentali. Una delle idee più diffuse è che l’homegrown terrorism abbia radici dirette nell’assenza di integrazione intesa come marginalità sociale e povertà economica. Tuttavia recenti studi dimostrano che, in fondo, questa connessione ha una scarsa incidenza statistica: tra i combattenti islamici ci sono tutte le classi sociali, non mancando soggetti benestanti e con un alto livello d’istruzione. Provocatoriamente ci si potrebbe chiedere, in questo senso, perché tra gli immigrati di religione islamica il fenomeno del terrorismo sia così ridotto. La questione è rilevante, perché il nesso tra marginalità e radicalizzazione esiste oggi con l’Islam come ieri col terrorismo politico. Eppure a incidere davvero è il vuoto che molti immigrati di seconda generazione percepiscono, restando in bilico tra la scelta delle famiglie e le società che essi non sentono come proprie. Spesso in questi casi subentra anche il rancore nei confronti dei genitori, che hanno abbandonato le proprie origini solo per il miglioramento delle condizioni economiche. Talvolta nella radicalizzazione c’è un senso di straniamento, l’idea che non vi sia coerenza tra l’essere e la realtà esterna. In poche parole, una crisi d’identità. Algerino di nazionalità francese o francese di origine algerina? Somalo relegato al ruolo di taxista a Helsinki o destinato a rendere Helsinki la propria Mogadiscio? Musulmano arrivato in terra cristiana con il fardello della Storia, quindi obbligato a rendere quella terra cristiana la propria terra musulmana? Detto ciò, ci son anche non musulmani convertiti e radicalizzati, come l’italiano Giuliano Delnevo, morto in Siria, il quale, comunque, prima di passare all’Islam aveva provato la via antisistemica dell’estrema destra. E questi sono processi interiori che risentono del contesto sociale nella propria interezza: un’Europa in crisi politica e morale, ancor prima che economica. In questo senso, non dimentichiamo che molti fenomeni di radicalizzazione avvengono in due dei fronti principali della marginalità psico-sociale contemporanea, ossia le periferie e le carceri (e sembra che gli autori del massacro alla rivista Charlie Ebdo si fossero radicalizzati proprio in un penitenziario): da un lato gravi errori di programmazione politica e urbanistica che rendono interi quartieri baratri sprofondati del nulla, dall’altro le galere sovraffollate e private sia del loro compito rieducativo, sia di quello punitivo, cioè trasformate in soste senza speranza. E anche se il fenomeno dell’homegrown terrorism in Italia è tuttora limitato, tenere un occhio su ambienti che favoriscano la marginalità psico-sociale è un dovere strategico.

Beniamino Franceschini

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Un chicco in più

Questo articolo è parte dello speciale Hot Spot – Europa e Islam contro il terrorismo, uno speciale a 360 gradi in cui 7 autori diversi analizzano vari aspetti a partire dai fatti di Parigi.

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Foto: khalid Albaih

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Beniamino Franceschini
Beniamino Franceschini

Classe 1986, vivo sulla Costa degli Etruschi, in Toscana. Laureato in Studi Internazionali all’Università di Pisa, sono docente di Geopolitica presso la Scuola Superiore per Mediatori Linguistici di Pisa. Mi occupo come libero professionista di analisi politica (con focus sull’Africa subsahariana), formazione e consulenza aziendale. Sono vicepresidente del Caffè Geopolitico e coordinatore del desk Africa.

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