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Grecia: un’intesa che non risolve la crisi

Raggiunta l’intesa tra Atene e Bruxelles. L’Eurogruppo, nella giornata di martedì 24 febbraio, ha accordato l’estensione del programma di sostegno finanziario alla Grecia a patto che questa attui specifiche “riforme” interne. Dopo l’esito dei negoziati, analizziamo il rapporto tra moneta unica e riforme.

L’ESITO DEI NEGOZIATI − I negoziati che si sono svolti a Bruxelles in merito alla spigolosa questione greca hanno dimostrato che non vi è personalità politica in Europa (nel caso di specie nell’eurozona) capace di ottenere per il proprio Paese riduzioni o tagli del debito. Tantomeno, quando a “sbattere i pugni sul tavolo” è il leader di un Paese periferico. Tsipras, che durante la campagna elettorale ha convinto parte del popolo greco e per riflesso l’opinione pubblica di molti Paesi di essere la persona in grado di invertire “l’austera rotta” intrapresa da Bruxelles, oggi fa i conti con la complessità di ottenere consenso presso i riluttanti partner europei e sgravi da parte dei creditori internazionali.
Qual è la realtà che emerge dalle convulse settimane di incontri al vertice? Fatta eccezione per alcune modifiche al dizionario della crisi la ridefinizione di «Troika» in «Istituzioni» su tutte  la Grecia si è vista dapprima negare la ristrutturazione del proprio debito e in un secondo momento concedere l’estensione di sei mesi dell’attuale programma di aiuti, in scadenza il 28 febbraio. L’intransigenza dei partner, specie da parte di Paesi vicini in termini di difficoltà economiche come la Spagna irritata dalle pretese “ad hoc” avanzate da Tsipras e Varoufakis in sede negoziale, come il taglio del debito e l’interruzione del piano d’austerità, possibilità finora mai concesse a nessuno dei Paesi dell’eurozona martoriati dalla crisi  ha convinto Atene a ridimensionare le proprie richieste, accettando, in ultimo, l’estensione del programma di aiuti di quattro mesi (Master Financial Assistance Facility Agreement). La proroga del piano di aiuti è una sorta di “concessione condizionata” da parte dell’Eurogruppo, in accordo con Fondo monetario internazionale, Banca centrale europea e Commissione europea. In altre parole, l’accesso di Atene al credito elargito dalle “Istituzioni” è vincolato al compimento di una serie di riforme strutturali interne approvate da Bruxelles in grado di rilanciare la competitività del Paese senza inficiare il consolidamento delle finanze pubbliche. Il piano di riforme presentato da Atene toccherà settori sensibili dell’economia e della società. L’intervento del Governo greco comprenderà misure che vanno dalla lotta alla corruzione e al contrabbando al taglio delle spesa pubblica, laddove questa risulta “improduttiva”. Provvedimenti noti al comparto dei Paesi periferici dell’eurozona: insomma, nulla di nuovo. Eletti per invertire questo trend, Tsipras e compagni tornano a casa con lo zaino pieno di “compiti”.

CRISI, EURO E RIFORME: QUALE CORRELAZIONE? – Spesso si associa la mancanza di riforme economiche all’inettitudine della classe politica e dirigente di un Paese. Considerazioni come questa hanno assunto valore assiomatico nell’eurozona e soprattutto in Grecia, distraendo gli addetti ai lavori da analisi della crisi più approfondite. La teoria dominante, infatti, è che Atene versi nelle attuali condizioni a causa di riforme economiche mancate o per troppo tempo procrastinate. La classe dirigente del Paese, alla quale per ovvie ragioni temporali non possiamo aggiungere quella attuale, ha giocato un ruolo cruciale nel ritardare le riforme, arroccandosi dietro sprechi, privilegi e particolarismi. Il risultato è stato un sistema politico nazionale incapace di ovviare alla crisi economica con strumenti correttivi adeguati. Questo è in estrema sintesi il film della crisi greca, che, anche se semplicistico, presenta tratti veritieri. Lo stato di salute della politica greca non può essere annoverato tra i più sani del mondo, come è del resto innegabile che il sistema socio-economico sia caratterizzato da corruzione, spesa improduttiva, clientelismo e inefficienza amministrativa. Realtà cui sarebbe opportuno porre rimedio attraverso degne riforme.

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Tsipras e Varoufakis se la ridono… ma siamo proprio sicuri che la Grecia sia salva?

Tuttavia ciò non spiega, o meglio, non esaurisce, le cause del protrarsi illimitato della crisi. Per comprendere a fondo lo stato comatoso in cui si trova la Grecia è necessario risalire alle ragioni politiche ed economiche che hanno indotto il Paese ad aderire all’Unione monetaria. Anzitutto è bene sottolineare che, in antitesi al pessimismo manifestato da autorevoli figure accademiche americane (Feldstein, Krugman, Salvatore, Dornbusch) riguardo alle reali utilità di una moneta unica tra Stati dalle abitudini economiche così lontane (si pensi al mercantilismo tedesco), le prime analisi sull’istituzione di un’area valutaria (one market, one money) in Europa evidenziavano alcuni benefici: liberalizzazioni, eliminazioni dei costi di transazione legati al cambio e diminuzione dei tassi di interesse sul debito. Misure che avrebbero agevolato il processo di crescita dell’intero continente. La domanda, a tal riguardo, sorge spontanea: come mai, alla luce di un simile scenario, Paesi come la Grecia non hanno beneficiato nel lungo periodo dei vantaggi previsti dall’adozione della moneta unica? Vi sono almeno due risposte plausibili, in aggiunta all’analisi semplicistica ricordata all’inizio del paragrafo (corruzione e inconsistenza politica come cause della crisi greca).

  1. In primo luogo, l’arretratezza dell’economia ellenica e le sue carenze strutturali avrebbero reso inefficace qualsiasi incentivo esterno (in questo caso l’euro). Non è possibile godere di vantaggi derivanti dall’adozione di una moneta unica quando tra contraenti persistono storici squilibri in termini di produttività, vocazione all’export, sviluppo tecnologico e competitività. Tuttavia la Grecia fu ammessa al club dell’euro, e quindi invitata a godere dei vantaggi previsti, per le ragioni affrontate nel punto seguente.
  2. L’adozione dell’euro comportava una serie di “aggiustamenti interni” ai quali ogni Paese membro si sarebbe dovuto sottoporre per rendere sostenibile la propria appartenenza all’area. Per aggiustamento si intende una serie di “riforme strutturali” votate all’ammodernamento dell’economia di ogni singolo Paese. A questo proposito era convinzione comune che l’euro, più di ogni altro strumento, avrebbe indotto i Paesi del Sud a ultimare ambiziosi programmi di riforme interne per troppo tempo rimandati. La moneta unica avrebbe “disciplinato i Paesi del Sud”, privandoli dello strumento della “svalutazione competitiva” (l’euro non si svaluta e rivaluta unilateralmente). Tuttavia, l’ammodernamento del sistema economico greco non si è verificato come la teoria prevedeva.

In uno studio apparso sul Journal of economic perspectives intitolato Political Credit Cycles: The Case of the Eurozone (2013), Jesus Fernandez-Villaverde, Luis Garicano e Tano Santos ritengono che l’euro, più che incentivare, abbia allontanato i Paesi membri dal percorso di riforme interne necessario, Grecia inclusa. I tre economisti adducono che l’enorme flusso di capitali che ha inondato i Paesi periferici dell’eurozona (nota: in un sistema di cambi fissi non aggiustabili come quello dell’euro l’impossibilità da parte di un Paese di svalutare favorisce i creditori, che data l’assenza di rischi sul cambio prestano con molta audacia il proprio denaro)  ha permesso un accesso al credito senza precedenti e aumentato il rischio di “bolle”. Ciò ha indotto le classi dirigenti a rimandare le “riforme” che l’euro avrebbe dovuto promuovere. Riforme che la Grecia, a oggi, sta ancora inseguendo.

CONCLUSIONI: CHE FARE? − Dopo i negoziati di febbraio, la Grecia si prepara all’ennesimo aggiustamento interno (vedi Chicco in più), forse ancora una volta lontano dalle reali esigenze del Paese. In cambio riceverà i finanziamenti che le permetteranno di sopravvivere, fino all’estate si intende. È ora che Syriza valuti costi e benefici dell’appartenenza a un’area valutaria che tutto si è dimostrata tranne che correttiva delle vecchie abitudini del Paese. La crisi greca, per essere compresa a fondo, merita un approccio che tenga conto non solo del livello di corruzione e inefficienza che ostacolano lo sviluppo del Paese (innegabile, eppure insufficiente per giustificare le condizioni economiche di Atene), ma anche degli effetti, non sempre positivi, dell’appartenenza a un’area monetaria profondamente squilibrata.

Daniele Morritti

[box type=”shadow” ]Un chicco in più

Dallo scoppio della crisi economica la Grecia ha conosciuto una serie di “aggiustamenti interni” atti al rilancio della competitività del Paese. Il ridimensionamento della spesa pubblica e la moderazione salariale hanno scoraggiato le importazioni e riequilibrato cosi la bilancia dei pagamenti. Tuttavia, le famose “riforme strutturali” non hanno rilanciato la crescita e Atene oggi fa i conti con una vera e propria crisi umanitaria. Lo stesso FMI riconosce che la cura somministrata non ha sortito gli effetti sperati: qui trovate l’analisi del Fondo che getta luce sulle riforme imposte dalla “Troika” ad Atene dal 2009.[/box]

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Daniele Morritti
Daniele Morritti

Sono laureato in scienze internazionali e diplomatiche. Attualmente frequento un master in Relazioni internazionali presso l’Université Libre de Bruxelles.

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