Può la pubblicità di uno shampoo innescare una grande quantità di polemiche politiche e sociali? Sì, se il testimonial scelto è Adolf Hitler. È accaduto in Turchia, dove un’azienda cosmetica ha scelto il dittatore nazista come simbolo di virilità. Le proteste, innescate dallla comunità ebraica turca, hanno costretto l’azienda a ritirare lo spot dopo pochi giorni. L’evento offre lo spunto per fare una riflessione sul rispetto delle minoranze etniche in Turchia: se Ankara vuole diventare a pieno titolo una democrazia “occidentale”, c’è ancora molta strada da fare
HITLER E LO SHAMPOO – “Se sei un uomo devi usare questo shampoo: i veri uomini lo usano”. Questo lo slogan utilizzato dall’agenzia pubblicitaria turca M.A.R.K.A. per sponsorizzare la produzione dello shampoo Biomen. Nel sottotitolo dello spot, nel quale appare Adolf Hitler, appare la frase: “Se non indossate un abito da donna, allora non dovreste nemmeno usare uno shampoo da donna”. Una réclame apparsa alle fine di marzo e che ha causato una certa indignazione nella comunità ebraica turca, tanto da richiedere il ritiro della campagna pubblicitaria. Diverse le reazioni: il principale rabbino in Turchia, ad esempio, in un suo comunicato ha definito Hitler come “il più forte esempio di crudeltà e ferocia”, uno schiaffo per l’intero popolo israelita. “E’ inaccettabile – ha continuato – che un personaggio conosciuto per aver perpetrato lo sterminio nazista sia stato scelto per veicolare un messaggio pubblicitario”. Non solo: chieste anche le scuse pubbliche, per l’impatto e il danno psicologico causato all’intera comunità e per il disagio che ne è scaturito, oltre alla profonda ferita nella coscienza pubblica. Il proprietario della Biomen, Hulusi Derici, avrebbe quindi deciso di ritirare, pochi giorni dopo, il messaggio con testimonial annesso. Derici si è tuttavia difeso, affermando al un quotidiano Daily News: “se per lo slogan fosse stata usata la figura di Mustafa Kemal Ataturk probabilmente nessuno avrebbe reagito così. Tutti avrebbero pensato che il fondatore della patria si stesse prendendo gioco di loro. Usare Hitler è stato invece inteso come un modo per promuoverne il personaggio”. Derici ha poi rimarcato come in realtà la sua azienda avesse usato Hitler solo per puro “divertimento”, ma che dopo l’invio da parte di diversi cittadini ebrei di email di rimostranze, non si poteva far altro se non ritirare lo spot. In tutta la bagarre, ciò che non è stato affatto smentito è il successo della campagna pubblicitaria, dimostrato dall’elevato interesse di pubblico e media. Anche la comunità scientifica non si è fatta attendere: Yeºim Ulusu, professore della Bahçeºehir Universitesi di Istanbul, ha suggerito che la questione sia valutata da una commissione etica. “È un messaggio commerciale sessista ed offensivo, tipico di una società maschilista. Non esiste nessuna connessione tra Hitler e la virilità. Non è un gioco: è il male”. Oltre alla questione ebraica, dunque, Ulusu ha messo nel piatto anche l’atteggiamento discriminatorio nei confronti delle donne. Protestano, dall’altra parte dell’oceano, anche gli Stati Uniti, che condannano non solo la compagnia ma anche lo spot.
UNA DEMOCRAZIA ETNICA – Sebbene la democrazia turca sia in una fase avanzata, per consolidamento, rispetto a tanti altri paesi che presentano un passato simile al suo, fatto di nazionalismi e modernismi, non si può certo affermare che Ankara sia la capitale di una democrazia matura. Le minoranze etniche, in particolare, sono state per lungo tempo emarginate e relegate alle periferie, spesso causando con questo atteggiamento governativo dei focali di revanchismo particolare. Ricordare le questioni armena e curda sarebbe come risvegliare non solo antichi dissapori, per usare un eufemismo, ma si tratterebbe piuttosto di riaprire una ferita storica, ancora viva, in quello che è stato il processo di formazione della nazione, da Ataturk in poi. Ecco perché la Turchia può essere più vicina per costituzione ad una democrazia etnica, dove una forte maggioranza, i turchi appunto, detengono il potere, non solo da un punto di vista governativo, bensì in maniera capillare su tutto il sostrato sociale. Ecco che la rappresentanza ne viene lesa definitivamente, e con essa la cosiddetta accountability, per usare un termine caro agli scienziati politici.
LA QUESTIONE EUROPEA – Soddisfare i parametri di democraticità richiesti dall’Unione Europea è stato per lungo tempo uno dei chiodi fissi della politica estera di Ankara, ma la sua marcata instabilità politica, oltre al difficile percorso che, attraverso una sorta di ancoraggio democratico, la società civile turca dovrebbe affrontare per consolidarsi, fa dello “spicchio europeo” una meta sempre più lontana. C’è poi l’altro lato della medaglia, che chiama in causa ancora una volta la geopolitica: la Turchia, infatti, forte della sua posizione geografica e del suo ruolo interregionale, sta orientando il proprio interesse verso altre direttrici, come il Medio Oriente, per riuscire a diventarne un modello attrattivo, un paese pacificatore, un alleato fidato. Con un percorso iniziato già dal 2003, da quando rinunciò a concedere le basi militari agli Stati Uniti per la guerra in Iraq, Ankara tenta di diventare una sorta di catch-all state (“pigliatutto”), dove per scelta cerca di rimanere in entrambe le sfere d’azione, quella europea e quella mediorientale.