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La questione irrisolta dei rapporti tra politica ed esercito in Turchia

Analisi – Il risultato delle elezioni in Turchia ha portato nuove preoccupazioni sull’egemonia istituzionale del Partito della Giustizia e dello Sviluppo. Questi vent’anni di Governo hanno infatti assistito a un’appropriazione e una personalizzazione dei poteri dello Stato da parte dell’esecutivo tra cui quello militare, divenuto oggi il braccio armato dell’esecutivo.

L’AKP DAVANTI ALL’ESTABLISHMENT MILITARE

I rapporti tra Istituzioni civili ed esercito sono sempre stati fondamentali nella vita politica della Repubblica turca. Dall’anno della sua nascita, infatti, il Paese ha vissuto cinque colpi di Stato militari con conseguenze pesantissime sia per quanto riguarda gli equilibri istituzionali, sia la definizione di un’identità nazionale. Oggi il Partito della Giustizia e dello Sviluppo (AKP), conservatore e religioso, è riuscito a raggiungere l’obiettivo di spodestare il precedente establishment militare – posto a difesa del principio di laicità repubblicana – per prenderne il posto. Tale risultato è stato ottenuto principalmente grazie a due fattori.
Il primo è il periodo storico: la fine della Guerra Fredda ha infatti favorito un’aspettativa di demilitarizzazione da parte degli alleati NATO – in particolare gli Stati Uniti – che fino a quel momento avevano accettato le ricorrenti ingerenze militari nel Paese.
Il secondo, invece, è la capacità politica del Presidente in carica, Recep Tayyip Erdogan, il quale è stato in grado di smarcarsi dalla stretta militare, ottenere consensi interni ed esterni e attuare un processo di accentramento del potere pazientemente portato a termine in circa quindici anni. Nel fare questo evitò che il proprio partito venisse sciolto e che gli esponenti fossero costretti a ritirarsi a causa dell’interventismo militare, com’era difatti già accaduto ai partiti religiosi che lo avevano preceduto.
Da un punto di vista concettuale, l’AKP nacque nel 2001 da una diramazione del tradizionale movimento islamico Millî Görüş, in dichiarata discontinuità con la sua tradizione politico-religiosa. Propugnando un islamismo moderato, nei primi anni di potere l’AKP si definiva quindi europeista e fedele agli ideali repubblicani, tanto da guadagnarsi l’ammirazione dell’Occidente che vedeva nella nuova interpretazione del leader Erdogan un’opportunità per conciliare Islam e democrazia occidentale. I punti di rottura si palesarono presto ma non furono abbastanza netti e bruschi da richiamare l’intervento diplomatico di Washington o Bruxelles. Al contrario, l’Unione Europea – preoccupata dal ruolo che l’esercito ricopriva nel paese, e come questo poteva minare lo sviluppo democratico – sostenne il Governo nel riformare i rapporti civili-militari in vista di una possibile adesione di Ankara all’Unione.

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Fig. 1 – Il Presidente turco e Leader dell’AKP, Recep Tayyip Erdogan, parla alla folla all’Ankara Sports Hall durante la presentazione del programma politico del partito, Ankara, Turchia, 11 aprile 2023

LA DEGENERAZIONE DEL PROCESSO DI ‘EUROPEIZZAZIONE’

Lo smantellamento del sistema kemalista è quindi di fatto cominciato con il processo di “europeizzazione” che prese il via ufficialmente con l’approvazione del Consiglio Europeo a Helsinki dello status di candidato della Turchia nel 1999, il quale definì l’obiettivo di portare Ankara a soddisfare i Criteri di Copenaghen.
Le riforme promosse dal Governo si focalizzarono in un primo momento nell’eliminare le prerogative e i privilegi che l’esercito aveva ottenuto grazie ai colpi di Stato negli anni 1960 e 1980, portando a una crescente limitazione dell’indipendenza militare. Dopo essere stati riformati ruoli e composizioni degli organi militari nel triennio 2001-2003, nel 2008 vennero sottoposte a referendum misure che indebolivano i rapporti tra esercito e magistratura, eliminavano l’immunità degli autori del colpo di Stato del 1980 e introducevano la competenza dei tribunali civili nel giudicare militari sospetti di attentare alla sicurezza della Nazione.
Il processo di delegittimazione militare è stato implementato poi dalle riforme – sottoposte a referendum – in chiave presidenziale nel 2014 e 2017. Il sistema costituzionale che nella seconda metà del Novecento era stato plasmato da un’élite militare non politica ma fortemente ideologizzata è stato quindi destrutturato e riformato da un establishment politico ugualmente identitario. La popolazione, che nei cinquant’anni precedenti aveva visto imporsi dall’esterno modifiche costituzionali, è stata chiamata tre volte in sette anni (escluse le elezioni) per rafforzare il potere del Governo.
Oggi, le forze terrestri, aeree e navali sono passate sotto il controllo del Ministero della Difesa e la riorganizzazione del sistema di educazione militare – fino ad allora di prerogativa dell’esercito – prevede l’intervento governativo. In generale, l’ambiente militare è stato de-laicizzato con l’eliminazione di divieti – anche stringenti – posti a limite della libertà religiosa. Infine, l’esercito si trova ora in uno stato di dipendenza finanziaria nei confronti dell’esecutivo.
L’esito di questo processo è stato quindi una sostituzione ideologica all’interno della composizione dell’esercito, che prima era formato interamente da membri laico-repubblicani, oggi dalla classe islamico-conservatrice sempre più presente in tutte le istituzioni statali.

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Fig. 2 – Il Primo Ministro del Lussemburgo Jean Claude Juncker abbraccia il suo omologo turco, Recep Erdogan, alla fine del secondo giorno del summit dell’Unione Europea a Porto Carras vicino Salonicco, 20 giugno 2003

L’AUTORITARISMO E LA NASCITA DI UN NUOVO ESERCITO

Più o meno parallelamente alle riforme strutturali necessarie per liberare il Paese dalla morsa militare, il potere politico si adoperò per attuare anche una delegittimazione sociale dell’esercito e per allontanare dagli ambienti militari pensieri dissidenti, mettendo sotto accusa per la prima volta nella storia l’apparato militare.
Il processo Ergenekon (2008-2016) prende il nome dalla presunta organizzazione ultranazionalista e antigovernativa che avrebbe, secondo la costruzione giudiziaria iniziale, pianificato di far cadere il governo. In un primo momento tale processo venne visto anche all’estero come una grande inchiesta sulla corruzione e l’ingerenza militare negli affari politici. Qualche anno dopo, però, la genuinità delle indagini fu profondamente rivalutata. L’ergastolo per l’ex Capo di Stato Maggiore, İlker Başbuğ, successivamente dichiarato illegittimo dalla Corte costituzionale, è solo uno delle tante contraddizioni del processo, la cui infondatezza è stata accertata in seguito all’assoluzione di 235 imputati.
L’accanimento giudiziario e mediatico contro l’apparato militare è stato possibile sia grazie alle riforme “europeiste”, che hanno indebolito l’esercito e posto il governo in una posizione favorevole, sia grazie alla proliferazione della classe islamico-conservatrice nelle varie Istituzioni.
La data spartiacque che segna l’inizio di un nuovo equilibrio istituzionale è però il 2016.
Dopo il colpo di Stato a Istanbul, nel quale circa 290 civili persero la vita, il Governo diramò uno Stato di emergenza rinnovato tante volte da durare un paio di anni, nei quali l’esecutivo ebbe il potere di attaccare direttamente i gruppi che si opponevano alla sua egemonia. In questo periodo, 150mila dipendenti pubblici sono stati quantomeno sospesi dal loro impiego e 20mila militari espulsi. Gli arresti sono stati poco meno di 300mila e gli ergastoli comminati all’incirca 2.500. In questo modo, si completò definitivamente il passaggio dal controllo militare sull’attività governativa al controllo politico sull’esercito.

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Fig. 3 – La polizia turca usa gas lacrimogeni per disperdere i manifestanti in piazza Kzaly riuniti per chiedere il rilascio di prigionieri sotto arresto nel processo Ergenekon, Ankara, Turchia, 13 febbraio 2014

LA CICLICITÀ DELLE RELAZIONI CIVILI-MILITARI IN TURCHIA

All’indomani della vittoria elettorale di Erdogan lo scorso maggio, è necessario interrogarsi su cosa implichi la riaffermazione della classe dirigente dell’AKP nelle istituzioni del Paese. Così come nella seconda metà del secolo scorso, l’esercito turco si caratterizza oggi per una forte ideologizzazione e una marcata esclusività. Nella visione neoconservatrice, così come in quella kemalista, il potere militare deve avere una forte connotazione identitaria incarnata dalla figura del cittadino turco-musulmano. Non a caso, la diffidenza di gruppi minoritari – come, ad esempio, i curdi – verso l’esercito è mediamente maggiore rispetto a quella che nutrono i cittadini turchi. Se l’esclusività non rappresenta una novità, la differenza sostanziale risiede innanzitutto nell’ideologia stessa degli ambienti militari (conservatorismo religioso al posto del pensiero laico-kemalista) e dal fatto che, coincidendo con l’ideologia dell’esecutivo, sono passati dall’essere “guardiani della Repubblica” a “braccio armato del Governo”.
Sia per timore di subire ritorsioni, sia per affinità ideologiche, l’esercito è oggi nelle mani governative senza quasi alcun tipo di contropotere. Ad esempio, un articolo di Foreign Policy espone come nel 2017 questo abbia assecondato senza alcuna resistenza le intenzioni di Erdogan di dispiegarsi in Siria, mentre prima del 2016 le opposizioni militari erano state molto dure.
Oggi, il pieno controllo governativo sull’esercito riporta le relazioni tra politica e militari a quelle che hanno seguito la nascita della Repubblica nel 1923, dopo avere avuto un lungo periodo (dal 1960) di controllo – al contrario – militare sulla politica: il processo “ciclico” di tali relazioni segnato da una costante prova di forza di entrambi le parti vede quindi oggi una sorta di “ritorno al passato”.
È ragionevole pensare che la criticità di questi rapporti sia dovuta in gran parte alla fortissima polarizzazione che colpisce il Paese, che porta a una continua tensione di imporsi sulla controparte. Il pieno funzionamento delle istituzioni è quindi sicuramente minato dall’inasprirsi del confronto tra le diverse identità del Paese e non può avverarsi senza la risoluzione di quest’ultimo.

Bruno Bevilacqua

Immagine di copertina: “Süleymaniye Mosque” by Jorge Lascar is licensed under CC BY

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Perchè è importante

  • Dopo la prima vittoria elettorale, il Partito della Giustizia e dello Sviluppo (AKP) si trovò ad affrontare un apparato militare privilegiato e fortemente ideologico.
  • Il ruolo dell’esercito in Turchia preoccupava anche Bruxelles che – in vista di una futura adesione della Turchia – auspicava una normalizzazione dei rapporti civili-militari.
  • In vent’anni di potere, Erdogan è riuscito a delegittimare – tramite riforme ed epurazioni – la potenza militare e a sottometterla all’esecutivo.
  • Oggi l’esercito è controllato politicamente ed è fortemente identitario così come quando nacque la Repubblica, con la differenza che la matrice laico-progressista è stata sostituita da quella islamico-conservatrice.

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Bruno Bevilacqua
Bruno Bevilacqua

Classe 1998, laureato in Giurisprudenza all’Università di Bologna e all’Università di Parigi-Nanterre, ora sono iscritto al master in “Security and International Relations” all’Università di Genova.
Appassionato di scrittura in maniera universale, mi dedico all’analisi geopolitica specialmente per ciò che riguarda la Turchia e l’area ex ottomana, mondo che ho cominciato ad amare dopo la mia prima esperienza in Anatolia.
Amante del trekking e di un buon libro, ho evidenti difficoltà a restare fermo.

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