Le dichiarazioni bellicose del governo Kirchner giungono infine al loro naturale sbocco: lo stato argentino torna in possesso della maggioranza delle quote azionarie della YPF, inaugurando un periodi di sicure tensioni con la spagnola Repsol e il paese guidato da Mariano Rajoy. Chi ha ragione? Buenos Aires, che reclama una carenza di investimenti da parte della compagnia petrolifera, o Madrid che vede i propri IDE nel Paese sudamericano a rischio?
L’AZIONE DEL GOVERNO ARGENTINO – Alla fine c’è riuscita. In seguito a mesi di voci sempre più ricorrenti, attacchi niente affatto velati contro i dirigenti della compagnia e dopo che ben sei province (ultima quella di Santa Cruz, lo scorso 12 aprile) avevano optato per il ritiro delle proprie concessioni alla YPF, la Presidente Cristina Kirchner si è decisa a compiere l’ultimo passo: è di lunedì la notizia che il governo argentino ha deciso di inviare un progetto di legge al Parlamento per privare la Repsol della quasi totalità delle proprie azioni in seno alla YPF. A meno di improbabili sorprese (il progetto pare trovare ampia approvazione all’interno del Congreso), dunque, la compagnia petrolifera spagnola, che finora deteneva il 57% delle quote, si vedrà sottrarre la proprietà del 51% delle azioni complessive della sua costola argentina. Il progetto di legge prevede che le azioni espropriate diventeranno proprietà per il 51% dello Stato federale, mentre per il 49% passeranno sotto il controllo delle province. Dunque, ricapitolando, il nuovo assetto della compagnia dovrebbe essere il seguente: la Nación argentina avrà in mano il 26,01% delle azioni, le province il 24,99%, la ricca famiglia argentina Eskenazi conserverà il proprio 25,46%, mentre alla Repsol rimarrà in mano appena il 6,43%. Il restante 17,09%, invece, continuerà ad appartenere ad azionisti minori. L’iniziativa di legge prevede inoltre che l’intera attività venga dichiarata “di interesse pubblico nazionale”, tanto che nel caso futuri governi vogliano nuovamente privatizzare le azioni appena entrate in mano pubblica, essi dovranno contare su una maggioranza qualificata di 2/3 dei voti del Congreso. Per quanto riguarda invece l’ammontare dovuto alla Repsol, questo sarà deciso nel prossimo futuro dal Tribunal de tasaciones de la Nación.
PERCHE’? – Come si spiega una misura tanto sfrontata e aggressiva nei confronti della Repsol? Semplicemente, secondo la versione argentina, essa è colpevole di non aver investito abbastanza nelle attività di estrazione, causando una caduta della produzione di petrolio e gas rispettivamente del 18% e dell’11%. Tutto ciò, per le autorità argentine, al fine di tenere i prezzi artificiosamente elevati, causando naturalmente danni enormi all’intera economia del paese e spingendo ancora più in alto il tasso d’inflazione (secondo stime non ufficiali, ma più affidabili di quelle governative, ci si avvia ormai verso il 30%). “Per la prima volta in 17 anni ci siamo trovati costretti ad importare gas e petrolio”, ha tuonato la Kirchner, addossando alla Repsol tutte le colpe di questa situazione e ricordando, manco a dirlo, il defunto marito (ed ex presidente) Néstor, cui “sarebbe piaciuto molto partecipare a questa decisione”.
LE REAZIONI DALLA SPAGNA – I commenti dalla penisola iberica non si sono ovviamente fatti attendere. Già alla vigilia della decisione, quando le voci sulla nazionalizzazione circolavano vorticosamente, Madrid aveva messo in guardia la propria ex colonia delle serie conseguenze che tale presa d’atto avrebbero comportato: “Qualunque aggressione alla Repsol che violi i principi di sicurezza giuridica sarà interpretata come un’aggressione alla Spagna”, era stata la minaccia sin troppo esplicita del Ministro degli Esteri Margallo. Che però non ha frenato il governo argentino nelle sue intenzioni. Lo stesso Margallo ha poi sottolineato come l’esproprio ai danni della Repsol “causi la rottura delle relazioni all’insegna dell’amicizia e della cordialità” tra i due paesi; dichiarazioni speculari sono state rilasciate dal Ministro dell’Industria Soria, che ha comunicato di essere già al lavoro per far entrare in vigore “misure chiare e contundenti” ai danni dell’Argentina, mentre il presidente spagnolo Rajoy ha addirittura posto in evidenza come il provvedimento “possa causare gravi danni all’intera regione sudamericana”.Da parte sua la Repsol, per bocca del suo presidente Antonio Brufau, ha anch’essa fatto intendere come una tale misura “non resterà impunita”, accusando la Kirchner di aver realizzato “un atto illegittimo in seguito a una campagna di accuse, volta a far crollare le azioni della YPF e permettere un’espropriazione a prezzi di saldo”. Aggiungendo che la compagnia cercherà di ottenere una compensazione di almeno 10,5 miliardi di dollari (8 miliardi di euro): vale a dire l’equivalente del prezzo di ogni azione (46,55 dollari) moltiplicato per la quota del 51% che si intende nazionalizzare. Dati alla mano, spiegano dai piani alti della Repsol, quanto sostenuto dal governo argentino sugli investimenti della compagnia semplicemente non corrisponderebbe a verità: nel 2012 gli investimenti previsti ammonterebbero infatti a 3,4 miliardi di dollari, il valore più alto di sempre e superiore all’anno precedente di 500 milioni di dollari. Secondo uno studio pubblicato dal quotidiano iberico El Pais, inoltre, le cause della minore redditività dei pozzi petroliferi argentini non avrebbero nulla a che vedere con le quote investite dalla Repsol, e sarebbero piuttosto da ricercare nel declino naturale di produttività di quelle sorgenti di petrolio che hanno superato il proprio zenit produttivo. Riportando cifre fornite dall’Agenzia internazionale dell’energia (AIE), lo studio dimostra come la caduta della redditività di tali fonti sarebbe quantificabile interno al 6,1%, percentuale in linea con quella dei giacimenti presenti negli Stati Uniti e al di sotto della media mondiale del 9%. Queste saranno le ragioni che la Repsol porterà in un arbitrato internazionale (con ogni probabilità quello della Banca Mondiale) per dimostrare l’illegittimità della misura intrapresa, e chiedere un ingente risarcimento al governo argentino.
QUALI CONSEGUENZE? – La strada intrapresa dall’Argentina è ormai chiara da tempo: scottata dal fallimento del 2001, e individuatene le cause nelle ricette liberiste imposte dal FMI, il governo sta optando da diversi anni per un massiccio intervento pubblico nell’economia del paese. È insomma la politica che prende nuovamente il sopravvento sull’economia, cercando di indirizzarne l’andamento verso obiettivi prefissati negli uffici della Casa Rosada. L’operazione di nazionalizzazione della YPF si inscrive perfettamente in questo quadro, seppur che essa possa dimostrarsi vincente è tutto da dimostrare. Di sicuro, la misura non contribuirà a rendere maggiormente attraente per gli investimenti stranieri un paese che, secondo la Banca Mondiale, già si posiziona al 113esimo posto per quanto concerne la facilità di intraprendere un’attività economica. Da parte sua, per la Spagna si tratta di un altro duro colpo in uno dei momenti più difficili della propria storia post-franchista. Mentre i titoli di stato continuano a schizzare verso l’alto, le voci di un soccorso da parte dell’UE si fanno sempre più ricorrenti e i continui tagli alla spesa sociale rischiano di mettere ulteriormente in ginocchio un paese già duramente provato dalla crisi economica, la perdita di un asset di tale rilevanza è sicuramente un fatto grave. Resta ancora da vedere quali saranno le misure di rappresaglia “diplomatiche, commerciali, industriali ed energetiche” intraprese dal paese di re Juan Carlos (che proprio pochi giorni fa si è rotto l’anca durante una battuta di caccia agli elefanti in Botswana). La Spagna occupa tutt’oggi uno spazio importante in diversi settori economici argentini: si va da quello energetico (Edesur, che distribuisce energia a 2,4 milioni di clienti) al bancario (Santander e BBVA), passando per l’ambito tecnologico (Elecnor, che ha appena avviato la costruzione del più grande parco fotovoltaico del paese) e quello delle comunicazioni (Telefonica e i suoi 23 milioni di clienti). Se a ciò aggiungiamo le pressioni che Madrid potrebbe esercitare nei vicini paesi sudamericani per quanto riguarda la questione Malvinas, possiamo ben renderci conto di quanto numerose e affilate siano le armi a disposizione di Rajoy per far pagare caro alla Kirchner la sua scelta.