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Sete di giustizia

Da Bangkok – A due anni dal massacro, nessuna giustizia per le vittime del Maggio Rosso, l’incredibile ondata di proteste di piazza che sconvolse il Regno di Thailandia nella primavera del 2010. Circa cento vittime e più di mille feriti, il bilancio della discesa in campo dell’esercito, un italiano, il fotoreporter Fabio Polenghi, rimasto a terra vittima della sua voglia incrollabile di raccontare. E’ tempo di bilanci per le Camicie Rosse a Bangkok, mentre alla necessità di verità e giustizia il governo risponde offrendo amnistie per tutti

 

LA CAPITALE OCCUPATA – Il 19 maggio 2010 l’Esercito Reale Thailandese disperse definitivamente le camicie rosse dal centro di Bangkok. Per riportare l’ordine nella capitale assediata furono utilizzati carri armati, cecchini e soldati. Il prezzo, altissimo, fu di almeno 90 morti e circa 1300 feriti. Perse la vita anche il fotoreporter italiano Fabio Polenghi. E dire che solo due mesi prima le camicie rosse, in buona parte provenienti dal povero ma popoloso nordest del paese, erano entrate a Bangkok festanti e speranzose. Le camicie rosse avevano invaso la capitale in una serie di colorati e rumorosi caroselli per chiedere le dimissioni del primo ministro Abhisit Vejjajiva e l’indizione di nuove elezioni.

 

LUNGA VITA AL RE E AI MILITARI – Abhisit si era installato a capo del governo già due anni prima grazie ad un ribaltone organizzato dalla ‘mano invisibile’ delle gerarchie militari. A farne le spese era stato il governo guidato dal Partito del Potere Popolare, vicino alle camicie rosse ma inviso al complesso monarchico-militare. Fiduciose in una inevitabile vittoria politica in virtù del consistente seguito popolare, le camicie rosse erano decise a rimanere a Bangkok fino a quando il loro obiettivo non sarebbe stato raggiunto. Dopo aver dato vita, il 14 marzo, alla più imponente manifestazione nella storia thailandese, le camicie rosse occuparono alcuni luoghi simbolo di Bangkok, come la piazza dove si erge il Monumento alla Democrazia, adornato dalle sculture dell’artista italiano Corrado Feroci, e la zona di Ratchaprasong, il cuore commerciale della capitale.

 

MAGGIO ROSSO – Le trattative tra i leader delle camicie rosse e il governo andarono avanti per diverse settimane, mentre gli scontri tra dimostranti ed esercito si fecevano progressivamente piu intensi. Guidate dell’ex generale dell’esercito thailandese Khattiya Sawasdipol, conosciuto con il nome di Seh Daeng (Comandante Rosso), i leader delle camicie rosse promettevano di resistere fino alla vittoria. Seh Daeng, che sosteneva di poter sconfiggere i soldati con tattiche di guerriglia urbana, venne però ucciso da un cecchino mentre rilasciava un’intervista al New York Times. Più che una manifestazione di protesta, a Bangkok si assisteva oramai al preludio di una guerra civile o una vera e propria rivoluzione, tanto che molti osservatori descrissero la crisi come uno storico braccio di ferro tra il popolo e l’ammart (l’elite). Alla fine Abhisit, per nulla intenzionato ad abbandonare la poltrona di primo ministro e tornare alle urne, reagì dichiarando lo stato d’emergenza. Proibendo raggruppamenti di più di cinque persone, il decreto rendeva automaticamente fuorilegge la distesa di manifestanti radunata nella capitale, dando così il via libera all’intervento militare. E l’esercito intervenne, seppur ad un prezzo elevatissimo, sia in termini di vite umane, quasi cento vittime, sia in termini economici, con decine di edifici dati alle fiamme dalle camicie rosse in ritirata. Centinaia di manifestanti anti-governativi vennero incarcerati. Gli altri vennero impacchettati negli autobus e rispediti nelle campagne. Il governo iniziò la censura di giornali ‘rossi’, chiuse decine di radio e il blocco di migliaia di siti internet.

 

DUE PESI E DUE MISURE – I fatti del 2010 rappresentano uno dei capitoli più neri della storia del Regno di Thailandia, ma a due anni di distanza non un solo soldato o ufficiale responsabile della strage e’ stato individuate o imputato, ne’ tanto meno arrestato, processato, o condannato. La “giustizia” ha usato invece la mano pesante con i dimostranti: centinaia di camicie rosse – leader, militanti o semplici simpatizzanti – sono stati arresti con le accuse più disparate, dal danneggiamento di proprietà pubblica e privata all’ormai arcinota lesa maestà. Cinquantasette di loro si trovano ancora in prigione. Le camicie rosse parlano di “due pesi e due misure” mentre i settori filo-militari sostengono che la magistratura sia un’istituzione imparziale e che l’esercito abbia solamente svolto il suo dovere.

 

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POCO SPAZIO PER I DIRITTI – Nel report sulla situazione dei diritti umani nel mondo di Human Rights Watch (HRW) pubblicato nel 2011 si legge che “i Diritti Umani in Thailandia hanno subito un brusco e rapido deterioramentoe che “le autorità thailandesi hanno risposto con forza eccessiva alle proteste – a tratti violente – dei manifestanti. Fonte di particolare “preoccupazione” secondo HRW, è stata l’ostinazione del governo Abhisit nel “sostenere di rispettare i diritti umani mentre maltrattava i detenuti e portava avanti una vasta campagna censoria”. Le elezioni del luglio 2011 hanno sostituito il governo Abhisit con un governo di un altro colore, più vicino alle camicie rosse e da esse sostenuto, guidato dal partito Pheu Thai (Per i Thailandesi). Il nuovo primo ministro e’ Yingluck Shinawatra, sorella minore di Thaksin, ex primo ministro cacciato da un colpo di stato militare nel 2006 ma ancora idolatrato dai settori meno abbienti della popolazione.

 

IL PREZZO DELLA VERITA’ – Durante la campagna elettorale Yingluck e il Pheu Thai avevano promesso giustizia per le vittime della violenza del 2010. Nei primi mesi di governo pero il governo è apparso più impegnato a migliorare i suoi rapporti con gli esponenti del complesso monarchico-militare che a chiedere giustizia e a lavorare per ottenerla. Nel tentativo di promuovere una “riconciliazione nazionale” Yingluck ha stanziato due miliardi di baht (circa 50 milioni di euro) per le famiglie delle vittime delle violenze di quei mesi e ha proposto un’amnistia generale. Pur accogliendo con favore i risarcimenti economici, le vittime delle violenze si sono dichiarate non pienamente soddisfatte. Insieme ai soldi, molti vorrebbero anche giustizia. “I risarcimenti non saranno mai abbastanza per chi ha perso una persona cara” ha dichiarato Isabella Polenghi, sorella di Fabio, in una recente intervista al quotidiano thailandese The Nation. “La verità è la cosa più importante”

 

IL SANGUE DEI VINTI – Come già accaduto per altri episodi violenti nella storia del Regno della Thailandia, questo paese rischia nuovamente di cancellare con un colpo di spugna una intera pagina di storia. “Nonostante le ben documentate atrocità che ebbero luogo davanti a telecamere e testimoni oculari, non un soldato né un ufficiale sono stati indagati” ha dichiarato Brad Adams, direttore di Asia Human Rights Watch. Di fatto, un’amnistia generale significherebbe la libertà per le camicie rosse che si trovano ancora in carcere, alcune accusate meramente di reati di opinione, ma costituirebbe anche uno scudo definitivo per tutti gli individui responsabili degli abusi, della “forza eccessiva” e dei crimini di quei mesi. “I militari non dovrebbero essere al di sopra della legge continua Adams, “il governo deve perseguire i responsabili dei crimini, indipendentemente dal loro colore politico, per dare giustizia alle vittime e per porre fine al ciclo di violenza e impunità.”

 

LE VITTIME MERITANO GIUSTIZIA” – A due anni dal massacro, la volontà del governo Yingluck di cancellare con un’amnistia tutti i crimini, senza mostrare un vero interesse nell’accertare prima i fatti di quelle settimane, potrebbe essere visto da alcuni settori delle camicie rosse come un tradimento. In un video reso pubblico il 15 maggio di questo mese, le vittime e i familiari chiedono giustizia e avvertono che il fallimento nell’investigare e punire i responsabili degli abusi del 2010 rischia di trascurare una ferita ancora aperta. “Far passare una legge sull’amnistia per i seri abusi commessi dalle forze governative e dai manifestanti armati sarebbe un affronto per le vittime” sostiene Admas. “Le vittime cercano e meritano giustizia”.

 

 

Alessio Fratticcioli

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