mercoledì, 7 Giugno 2023

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Bersaglio Iran

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Può davvero Israele bombardare con successo i siti nucleari iraniani? Tutti concordano che le distanze coinvolte sono al limite del raggio operativo dell’Israeli Air Force (IAF) e che almeno due dei siti principali (Natanz e Fordow vicino a Qom, dove sono le centrifughe per l’arricchimento) richiedono bombe “bunker-buster” tipo BLU, in alcuni casi centrando lo stesso bersaglio più volte. Ma non sono le uniche questioni aperte

 

OPINIONI CONTRASTANTI – Le opinioni al riguardo divergono. Tra i principali sostenitori della capacità di Israele di poter colpire e distruggere i siti in maniera definitiva vi sono Whitney Raas e Austin Long in un lavoro del 2007 (recentemente aggiornato dallo stesso Long); secondo loro – e chi ne condivide le idee – una cinquantina appena di apparecchi potrebbero bastare per raggiungere il bersaglio, scaricare sufficienti bombe e tornare a casa senza subire perdite o correre particolari rischi dato l’enorme gap tecnologico con le difese iraniane. Gli autori notano come l’impresa sia tutt’altro che semplice data la coordinazione richiesta tra gli aerei d’attacco, gli aerei cisterna per il rifornimento in volo e la precisione richiesta nell’uso delle armi, ma che tutto sommato  l’intera impresa sia tutt’altro che impossibile.

 

Una visione meno ottimista invece è quella di Anthony Cordesman che in un altro lavoro mostra come la combinazione di distanza, numero e tipologia dei bersagli, velivoli e peso degli ordigni indichi la necessità di impiegare circa un centinaio di aerei tra bombardieri e caccia di scorta (ovvero sostanzialmente tutti i cacciabombardieri a lungo raggio a disposizione dell’IAF). In entrambi i casi però Israele dovrebbe colpire anche con i suoi missili balistici Jericho II e con i cruise lanciati dai suoi sommergibili classe Dolphin per sopprimere almeno parte delle difese antiaeree iraniane. Altri lavori si allineano sostanzialmente a questi due estremi.

 

CHI HA RAGIONE? – Quale versione è più realistica? Non pretendiamo di dare una risposta definitiva: nessuno al mondo la possiede ora. Tuttavia dalle nostre analisi e dal confronto con alcuni esperti internazionali ci siamo fatti un’idea. Le ipotesi di Raas e Long appaiono molto ottimistiche: la loro analisi su quanti danni sia possibile causare ai siti nucleari più fortificati è basata sulla supposizione di conoscere con accuratezza la posizione sotterranea esatta dei laboratori e magazzini più importanti e la loro protezione. Non forniscono però (né esistono, almeno disponibili al pubblico) informazioni che giustifichino tali assunzioni.

 

Inoltre tutto questo non spiegherebbe perché gli israeliani in questi ultimi anni si siano addestrati ad operazioni a lungo raggio con un centinaio di velivoli (sopra Creta e Romania); se poi l’operazione fosse stata considerata così realizzabile come Raas e Long ipotizzano, bisogna chiedersi come mai l’attacco non sia stato già lanciato e perché sia stato così ben pubblicizzato quando in occasioni simili (Iraq 1981, Siria 2007, Sudan 2009) Israele ha agito appena pronto e senza lasciare presagire nulla preventivamente.

 

LA VERA DOMANDA – Al contrario, e per quanto anche tra la leadership israeliana non vi sia uniformità di valutazione, è necessario innanzi tutto porsi un problema ben preciso: cosa significa avere successo in questo caso? Quale risultato può ragionevolmente aspettarsi Israele in questo caso?

 

Per rispondere a queste domande è necessario rispondere sia sul livello tecnico sia su quello pratico. Israele può effettivamente arrivare a colpire i siti nucleari iraniani, e presumibilmente anche a causare danni considerevoli sui bersagli più vulnerabili (su questo anche Raas e Long hanno ragione), ma basta una sola ondata a eliminare ogni minaccia e per sempre?

 

PROBLEMI – Non c’è certezza su dove siano effettivamente localizzati i laboratori e i depositi principali sottoterra – e anzi è da aspettarsi una certa dose di disinformazione e “trucchi” per sviare l’attenzione; inoltre la superiorità tecnologica, per quanto reale, in guerra non sempre è sufficiente a raggiungere il successo. Davvero nessun missile antiaereo iraniano raggiungerà il bersaglio? Davvero le batterie antiaeree e l’aviazione di Tehran (comunque molto obsoleta) non costringerà almeno alcuni aerei a manovre e sganciare anzitempo gli ordigni per manovrare in sicurezza – perdendo però così la possibilità di usarli sui bersagli? Senza parlare della capacità israeliana di rifornimento in volo, che come già detto in passato alcuni esperti USA riferiscono essere solo modesta – e questo sperando che nessun aereo cisterna debba tornare alla base per problemi nei momenti meno opportuni, o che altri aerei non abbiano guasti. Risulta allora necessario pianificare come e dove impiegare i mezzi per effettuare Combat Search & Rescue (CSAR) per impedire che piloti caduti in territorio ostile vengano catturati e diventino armi mediatiche. In una missione così al limite, poche sbavature potrebbero rovinare tutto e portare a un disastro – che verrebbe sfruttato facilmente dai nemici di Israele.

 

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BDA – Ma soprattutto, come valutare se le bombe abbiamo inflitto i danni sperati? Effettuare un Bomb Damage Assessment (BDA) su bersagli sotterranei di cui poco si conosce è quasi impossibile. Pertanto una volta sganciate le bombe bisogna “sperare” che abbiano avuto successo. Alcuni analisti ipotizzano perciò che una sola ondata non sia sufficiente e che sia necessario, dopo aver soppresso le difese antiaeree iraniane, attaccare per più giorni, “scavando” il terreno lanciando numerosi ordigni l’uno dopo l’altro negli stessi punti. Anche qui però la reale fattibilità di tale opera di burrowing (scavo) è da verificare: la meccanica della penetrazione del terreno e dell’esplosione è meno semplice di quanto non sembri e più di un esperto ha indicato come l’efficacia potrebbe non essere quella sperata. Inoltre, più giorni dura il conflitto e più l’Iran può impiegare contromosse per colpire Israele altrove tramite i suoi associati (Hezbollah, la Jihad Islamica,…) e/o i suoi stessi missili a lungo raggio. Allo stesso modo, crescerebbe la pressione internazionale per fermare la guerra. Israele potrebbe non avere tutto il tempo necessario.

 

Inoltre, ripetiamo, come capire se l’efficacia sia appunto quella sperata? Senza immagini che lo confermino (i bersagli, lo ricordiamo, sono sottoterra e anche i satelliti potrebbero non fornire dati univoci) ci si aspetta che i leader iraniani dichiarino di non aver subito nessun serio danno e del resto non sarà facile dimostrare il contrario: rimane alto pertanto il rischio che anche un successo reale non dimostrabile venga trasformato un una sconfitta mediatica. Anche ammettendo che grossi danni siano stati causati, nulla impedisce che il programma venga fatto ripartire successivamente altrove. Ci vorrebbero anni per ripristinare le apparecchiature,  ma la speranza di fermarlo per sempre rimarrebbe semplicemente un’utopia. Senza contare che potrebbero esistere depositi o strutture ancora segrete.

 

TAGLIARE L’ERBA – Questi dubbi sono gli stessi che attanagliano la leadership israeliana e che finora hanno portato a sperare che fossero gli USA – con maggiori mezzi e capacità – ad attaccare. Eppure questo ora appare sempre meno improbabile. Niente attacco dunque? Onestamente, se a Gerusalemme pensano che non vi sia altra scelta, l’attacco avverrà comunque indipendentemente dalle difficoltà e dai rischi. Da un lato, il comando israeliano potrebbe puntare su una strategia di “mowing the grass” per usare un termine normalmente impiegato riguardo al terrorismo di stampo arabo-palestinese: tagliare l’erba eliminando le minacce immediate tenendosi pronti per ripetere l’opera più avanti. Oppure potrebbe attaccare solo per cercare di costringere gli USA ad entrare in guerra dopo l’attesa risposta Iraniana.

 

Ma gli USA e l’Iran potrebbero non essere d’accordo. Vedremo in seguito perché.

 

Lorenzo Nannetti
Lorenzo Nannetti

Nato a Bologna nel 1979, appassionato di storia militare e wargames fin da bambino, scrivo di Medio Oriente, Migrazioni, NATO, Affari Militari e Sicurezza Energetica per il Caffè Geopolitico, dove sono Senior Analyst e Responsabile Scientifico, cercando di spiegare che non si tratta solo di giocare con i soldatini. E dire che mi interesso pure di risoluzione dei conflitti… Per questo ho collaborato per oltre 6 anni con Wikistrat, network di analisti internazionali impegnato a svolgere simulazioni di geopolitica e relazioni internazionali per governi esteri, nella speranza prima o poi imparino a gestire meglio quello che succede nel mondo. Ora lo faccio anche col Caffè dove, oltre ai miei articoli, curo attività di formazione, conferenze e workshop su questi stessi temi.

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