Domani i cittadini ellenici saranno chiamati a votare in un referendum che potrebbe avere una portata storica non solo per il futuro della Grecia, ma del progetto stesso di integrazione europea. Ne parliamo con la Prof. Simona Beretta, docente di Politica Economica Internazionale presso l’Università Cattolica, che da oggi entra a far parte del Comitato Scientifico del Caffè Geopolitico
L’estenuante negoziato degli ultimi mesi tra il Governo di Atene e il Gruppo di Bruxelles (la vecchia “troika”) sembra aver seguito la traiettoria di un piano inclinato e dunque l’esito degli ultimi giorni potrebbe sembrare quasi come “annunciato”. Come e perché siamo arrivati a questo punto? Di chi sono le responsabilità?
Con la vicenda greca degli ultimi anni si sta ripresentando la difficoltà di sempre nella gestione dei debiti sovrani. Tutti i sistemi e gli accordi di carattere monetario internazionale sperimentati negli ultimi secoli sono andati in crisi sul problema, in gergo, dell’ “aggiustamento” – ossia della capacità di preservare una relazione sostanzialmente bilanciata di debito/credito col resto del mondo. Così è finito il regime di Bretton Woods, così si è manifestata la crisi dello SME nel 1992, così si sono sviluppate le crisi finanziarie degli anni della globalizzazione, da quella dal 1982 a quella delle economie emergenti della seconda metà degli anni novanta. Si arriva al punto di rottura (crisi) quando non si sono trovati o gli strumenti, o la volontà, di mettere in linea la spesa con le risorse disponibili. Come è noto, l’aggiustamento costa, e purtroppo tende a gravare sui più deboli perché chi è forte ha più voce nell’influenzare come l’aggiustamento dovrà avvenire.
In questa prospettiva, diventa relativamente facile anche rispondere alla domanda su chi porta la responsabilità di una crisi da mancato aggiustamento. Siccome non può esistere un debitore senza un creditore, siamo strutturalmente in presenza di un concorso di colpa.
Quando un debito non è più onorabile – e questo mi sembra certamente il caso di gran parte del debito greco – occorre prendere atto che un rapporto debito/credito preesistente deve essere ripensato, redistribuendo i costi che conseguono al ripensamento. Poiché esistono infiniti modi di distribuire i costi, bisogna fare attenzione, anche in questo caso, a non gravare sui più deboli, ricordando che i “forti” e i “deboli” non sono tanto i paesi implicati, quanto i soggetti concreti su cui ultimamente gravano le conseguenze delle decisioni che vengono prese.
Con un’ultima osservazione: anche NON decidere (posponendo, rimandando, tergiversando, cercando di evitare l’inevitabile…) è stata una decisione che ha prodotto molti costi, proprio sui più deboli.
Che esito prevede per il referendum di domenica 5 luglio? Una prevalenza dei “no” potrebbe portare ad un’uscita della Grecia dall’eurozona, ma in realtà la teoria economica (e anche la pratica di esempi anche del recente passato) prevede la possibilità di diverse soluzioni intermedie, come una “eurizzazione” stile Montenegro o la circolazione temporanea di due valute parallele, la seconda rappresentata da “IOUs” per sostenere i pagamenti interni di stipendi e pensioni. Insomma, siamo davvero ad un “dentro/fuori” per Atene?
Spero nel “sì”, ma questa non è una previsione. Mi pare la soluzione che meno danneggia i deboli. Quanto alle soluzioni intermedie, sono sicuramente praticabili, formalmente o informalmente. Possono anzi essere una utile valvola di sicurezza, nelle fasi di transizione. Ma deve essere chiaro che le soluzioni intermedie sono tipicamente da transizione, e quindi non sono da pensarsi come soluzioni durature. In fondo, anche noi in Italia potremmo usare il dollaro negli scambi interni e negli scambi internazionali, se ci venisse lo sghiribizzo. Non lo facciamo perché non è pratico, e ci darebbe più costi che benefici. Anche in una Grecia con la “nuova dracma” gli scambi interni e internazionali potrebbero bypassare la nuova moneta, e gli incentivi a farlo potrebbero essere molto consistenti. A meno di realizzare un sistema di controlli amministrativi rigidissimi (cosa relativamente più facile nei sistemi autoritari che nei sistemi democratici), la situazione “ibrida” finirebbe molto probabilmente per rafforzare i soggetti forti, capaci di cogliere le opportunità offerte dalle diverse alternative, e per ulteriormente confinare i soggetti deboli nella sfera delle transazioni con strumenti monetari meno vantaggiosi, caratterizzati da una minore capacità di soddisfare il ruolo fondamentale della moneta di essere un “fondo di valore”.
L’obiettivo primario delle trattative dovrebbe essere tornare a far crescere il PIL greco e migliorare le condizioni della popolazione ellenica. Per fare ciò, però, l’economia deve essere più competitiva. In un sistema di cambi fissi, un aggiustamento può essere fatto solo a livello interno, intervenendo sul costo del lavoro o con riforme strutturali. Secondo lei, queste soluzioni rimangono sempre preferibili rispetto al ritorno alla dracma e ad una sua svalutazione?
E’ una falsa alternativa. La svalutazione tende a non funzionare come strumento di rilancio della capacità di esportazioni di un Paese, se non per un brevissimo periodo, e anche in questo caso solo se è in qualche misura inattesa dai mercati (i cui operatori non avevano già ‘scontato’ il tasso di cambio futuro atteso nel formulare i prezzi dei loro scambi). Basta guardare all’esperienza italiana degli anni Settanta, in cui la svalutazione è stata una costante dello scenario di politica economica e non ha prodotto alcune effetto di competitività. Si può anche confrontare la tipica (e inutile) svalutazione da anni Settanta con il caso, atipico e utile, del deprezzamento della lira italiana dopo la crisi sistemica dello SME nel 1992. Nel secondo caso, l’Italia era decisamente avviata su un percorso di disinflazione e di rilancio della competitività sostanziale, puntando con forza all’integrazione monetaria in Europa. Ricordiamo poi che capacità di esportazione non è sinonimo di vera competitività: se la svalutazione può contribuire a dare un (temporaneo) vantaggio di competitività di prezzo, la vera competitività che dura e che à frutti nel tempo è quella non-di-prezzo (qualità, innovazione).
Siccome il caso della Grecia attuale somiglia di più al caso dell’Italia anni Settanta che a quello dell’Italia 1992, direi che la svalutazione greca rischia di prolungare le difficoltà piuttosto che risolverle. Intervenire efficacemente su “costo del lavoro e riforme strutturali” rimarrebbe comunque necessario; ma bisogna intendersi anche su cosa dovremmo trovare sotto queste due etichette… molto, molto ambigue.
Chi la spunterà al referendum in programma domenica 5 luglio?
Il dibattito in queste ultime ore sembra essere ruotato intorno a questioni veramente di dettaglio come il livello dell’IVA sulle isole greche o l’impegno del Governo di Atene a liberalizzare il settore delle palestre, come contenuto – in maniera che suona un po’grottesca – nell’ultima lettera indirizzata da Tsipras alla “troika”. Pensa che ci si stia rendendo conto che qui è in gioco qualcosa di molto più grande, ovvero la sopravvivenza stessa di un progetto di integrazione, che prima ancora di essere economico/finanziario e “contabile” è un progetto politico?
The devil is in the details, dice il proverbio. Dai dettagli si capisce quanto ci importa anche del grande disegno – e lo dico con riferimento a tutte le parti in causa. È vero che l’unione dei popoli dell’Europa è qualcosa di molto più grande. A mio parere va addirittura al di là della sopravvivenza di un progetto di integrazione economico/finanziaria (per quanto tale integrazione sia desiderabile), e persino al di là del comune progetto politico (che pure ritengo del tutto desiderabile). L’unione dei popoli dell’Europa viene da lontano; per certi versi va prima riconosciuta e poi perseguita, ed è una sfida che riguarda il vivere insieme fra diversi, riconoscendo il valore gli uni degli altri, degli uni per gli altri. Speriamo che la crisi attuale dell’Unione (abituata a calibrare le sue scelte sulla convergenza degli interessi) porti ad approfondire il genio delle sue origini, in cui interessi e ideali erano coniugati concretamente.
Che futuro vede per l’UE? Il recentissimo rapporto dei Cinque Presidenti sembra tracciare una strada chiara per il rafforzamento e il contemplamento dell’Unione Monetaria. Pensa che queste proposte sopravvivranno alle spinte disgreganti in atto in questo momento?
Io penso di sì. Le proposte di rafforzamento e contemplamento dell’Unione Monetaria (che sono in notevole continuità col percorso europeo post-crisi finanziaria) riflettono una non scontata capacità di interrogarsi su cosa si debba cambiare e di fissarsi degli obiettivi. La mia risposta alla domanda precedente spiega perché voglio essere ottimista: non me la sento di buttare a mare l’esperienza di integrazione europea realizzata (sia pure imperfettamente) attraverso la UE e l’Unione Monetaria, perché con tutti i suoi difetti continua a conservare un barlume dei suoi inizi. Credo che questo sentimento possa essere condiviso; anzi, mi pare una base ragionevole per tornare parlare seriamente di Europa (sia nel nostro Paese, sia altrove), e non solo in una prospettiva di realpolitik da quattro soldi, alla ricerca di effimeri consensi politici.
Davide Tentori
[box type=”shadow” align=”” class=”” width=””]
Un chicco in più
La Prof. Simona Beretta inizia con questa intervista la sua collaborazione con il “Caffè” come nuovo membro del Comitato Scientifico. Potete consultare il suo profilo a questo link.
[/box]
Foto: aggelikikoronaiou
Foto: aggelikikoronaiou
Foto: Epoca Libera