La Cina è davvero un’economia “capitalista”, almeno nel senso in cui siamo abituati a parlare di Capitalismo dalla nostra prospettiva? Come vedremo nel primo articolo di questa nuova rubrica, rispondere a questa domanda non è così semplice. La dialettica “Stato – mercato” non si esaurisce in maniera scontata. Vediamo perchè
UNO O PIU’MODELLI? – «Se c’è un ‘modello cinese’, – spiega Dirlik – la sua più rilevante caratteristica è la volontà di sperimentare con differenti modelli». Prova ne potrebbe essere l’evoluzione dei paradigmi del potere fin dalla nascita della Repubblica Popolare. Si è passati dal “comunismo” maoista, al “socialismo di mercato” di Deng, ai “tre rappresentanti” di Jang, alla “società armonica e allo sviluppo scientifico” di Hu e, ancora, al “socialismo con caratteristiche cinesi” di Xi.«Alcuni definiscono il riformismo come un cambiamento verso i valori e il sistema politico occidentale. […]. La nostra è una riforma che ci fa proseguire sul sentiero del socialismo con caratteristiche cinesi» (Xi Jinping, dicembre 2012). E non si tratta solo di retorica. Secondo Arrighi e altri autorevoli studiosi (vedi Un chicco in più), il modello cinese è riconducibile, con tutte le sue ibridazioni e nuove sperimentazioni, a un sistema di mercato non-capitalistico, oppure a un socialismo di mercato. Al contrario, però, la maggior parte dei media e dell’opinione pubblica occidentali definiscono la Cina contemporanea come un “sistema capitalistico autoritario” o un “capitalismo della giungla” tout court. Per noi rimane una questione aperta, anche perché relativa a un Paese di lunga civilizzazione – civilization state– estremamente complesso e capace di cambiare radicalmente, pur mantenendo vive le tradizioni filosofiche, culturali e politiche che ne hanno segnato la storia.
Fig. 1 – La Cina e le contraddizioni del suo impetuoso sviluppo economico
PREGIUDIZI E SEMPLIFICAZIONI – Partiamo col sottolineare che nell’interpretazione occidentale della politica cinese e del suo sistema socio-economico prevalgono pregiudizi etnocentrici e acritici. Di conseguenza, la complessità della Cina e le relazioni Stato-società sono spesso sottovalutate da politici, commentatori, giornalisti e, non di rado, studiosi di scienze sociali, che adottano tesi ‘difettose’ alimentando così incomprensioni e luoghi comuni sul cosiddetto “modello cinese” (per una analisi dettagliata, che sfata alcuni malintesi, si veda Rothman e Zhu). La maggior parte delle riviste scientifiche nel settore della geografia, ma anche quelle di altre discipline, sembrano piuttosto arretrate nell’analisi sistematica e comparata della complessità e diversità della Cina. Come anticipato, si ritiene comunemente, e aprioristicamente, che la Cina sia diventata uno stato-nazione “capitalista” (almeno così come lo intendiamo nei Paesi occidentali), il cui sistema viene declinato di volta in volta a partire da questo assunto (si veda ad esempio Yeung, Harvey, Wu, Peck e Theodore). A cascata, simili giudizi si trovano anche e soprattutto su quotidiani, settimanali e mensili. Come dimostrerebbe uno studio recente realizzato dal Centro di ricerca sul giornalismo e lo sviluppo sociale dell’Università Renmin di Pechino, la Cina, secondo i cinesi, non gode di buona fama in Europa e in particolare sui media del vecchio continente. «Il risultato è impressionante: secondo questo studio, quasi la metà dei media globali ritrae la Cina come un paese ostile al dialogo – ha spiegato Fu Jing, caporedattore del China Daily a Bruxelles e corrispondente capo in Europa» (Lupano, agichina24, 4 giugno 2015).
QUALE INDIRIZZO POLITICO-ECONOMICO? – Se non c’è sufficiente comprensione delle peculiarità del modello cinese e se la Cina viene troppo spesso dipinta come ostile e minacciosa, non deve sorprendere che ci sia confusione anche in merito agli indirizzi politico-economici della Repubblica popolare. Le più importanti istituzioni finanziarie, universitarie e mediatiche del cosiddetto Washington Consensus (ricordiamo,tra le altre, Fondo Monetario, Banca Mondiale, il Tesoro Statunitense e la Banca Centrale USA, ovvero la Federal Reserve, vari think tank statunitensi e inglesi, quotidiani economico-finanziari, ecc.) hanno spesso attribuito la crescita dei Paesi emergenti, Cina inclusa, alle ricette neoliberali da essi propugnate e praticate. Queste tesi sono state tuttavia contraddette, fin dall’inizio degli anni Duemila, da numerosi episodi di crisi economiche in Africa Sub-Sahariana, in America Latina e nell’ex URSS, che si sono verificati proprio a seguito di un’applicazione troppo rigida e non adattata ai singoli contesti dell’applicazione delle ricette neoliberali tra gli anni Ottanta e Novanta (a questo proposito, ad esempio, il default argentino del dicembre 2001 è emblematico). Secondo J.K. Galbraith, sia la Cina che l’India, benché con tradizioni e assetti di potere differenti, sono rimaste indipendenti dalle banche occidentali fin dagli anni Settanta e si sono salvate dalla crisi dei debiti grazie a una combinazione di riforme e nuove regolamentazioni. Tra gli aspetti principali di queste strategie ricordiamo i numerosi controlli sui flussi di capitali, la conservazione dell’industria pesante e il mantenimento di una parte significativa del settore produttivo in mano statale. Inoltre, secondo Arrighi, le riforme statali tese a sostenere più competizione, ridimensionare o eliminare alcuni monopoli di Stato ed eliminare le barriere al commercio, sono tutti aspetti che non assomigliano a un capitalismo senza regole, ma sembrano più vicini al mondo smithiano dei capitalisti guidati da una competizione costante che operi in favore dell’interesse nazionale. Pertanto, sarebbe errato, secondo autori autorevoli come Galbraith e Arrighi, considerare questi Paesi come capitalisti in senso stretto. Nel 2012, a seguito del rapporto dell’Economist sul “capitalismo di stato” cinese, Luigi Cavallaro offrì un interessante commento critico sostenendo che: «il “mercato” è semplicemente un proscenio», ovvero che a prevalere nel sistema cinese sarebbero ancora i rapporti di produzione statuali (di tipo socialista) e non quelli economici, criticando dunque l’interpretazione dell’Economist secondo la quale la battaglia che definirà il XXI secolo non si combatterà tra capitalismo e socialismo, ma tra differenti versioni del capitalismo.
http://gty.im/51966434
Fig. 2 – Deng Xiaoping: a lui si deve l’inizio dell’apertura economica della Cina al mondo
CONFUCIANESIMO E SOCIALISMO – La Cina combina politiche e tradizioni economiche centrate sulla pianificazione territoriale e la sperimentazione, traendo ispirazione tanto dai principi fondamentali della lunga tradizione confuciana (vedi Tu) quanto da quelli del socialismo (come spiegato da Jacques, Dirlik e De Villar). Anche se il confucianesimo è stato generalmente limitato e marginalizzato tra la metà del XIX secolo e il 1980, esso ha alcune idee e principi generali in comune con il socialismo-comunismo (come ad esempio l’accento posto sulla formazione, sulla capacità di autocritica, sui lavoratori modello e sulla reciprocità). Questo è un motivo in più per cui alcuni autori hanno osservato importanti punti di continuità tra le tradizioni del confucianesimo e del socialismo in Cina (si vedano Jacques e Trichur).
UNA PRIMA CONCLUSIONE – Definire il percorso della Cina in poche righe non è un esercizio semplice. E’ certo, però, che l’interpretazione di una Cina strettamente collegata a un sistema capitalista tout court non ha contribuito ad accrescere la comprensione del modello di sviluppo cinese, il cui livello di ibridazione e sperimentazione è invece molto elevato. In questa introduzione alla nuova rubrica, abbiamo infatti indicato alcuni studi fondamentali–molto approfonditi ed adeguatamente storicizzati– che indurrebbero piuttosto ad associare l’attuale ascesa cinese a un sistema di mercato non capitalista, in quanto significativamente guidato e pianificato da un costante interventismo degli organi statali. Ma, come detto, si tratta di una questione aperta, sulla quale torneremo a breve avvalendoci della prospettiva e delle opinioni di autorevoli studiosi.
Fabio Massimo Parenti
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Un chicco in più
Per ulteriori approfondimenti, si vedano i seguenti riferimenti bibliografici:
- Arrighi, G. 2007. Adam Smith in Beijing: Lineages of the Twenty-First Century. London: Verso.
- De Villar 2012. “The Discourse, Practice, and Expansion of Chinese Scientific Socialism: Geopolitical Implications for Latin America and the United States.” Thunderbird International Business Review54(2): 155-168.
- Dirlik, A. 2012. “The idea of a ‘Chinese model’: A Critical Discussion”. China Information 23(3): 277-302.
- Harvey D. 2005. A Brief History of Neoliberalism. New York: Oxford University Press.
- Jacques, M. 2012. When China Rules the World. London: Penguin.
- Peck, J., and N. Theodore. 2007. “Variegated Capitalism.” Progress in Human Geography 31(6): 731–772.
- Rothman A.,and J. Zhu. 2012. Misunderstanding China: Popular Western Illusions Debunked. Special Report.CLSA Asia-Pacific Markets.
- Trichur, Ganesh K. 2012. “East Asian Developmental Path and Land-Use Rights in China.”Journal of World-Systems Research XVIII(1): 69-89.
- Tu Wei-ming. 1993. “Confucianism”. In Our Religions. The Seven World Religions Introduced by Preeminent Scholars from each Tradition. New York: HarperCollins.
- Wu, F. 2010. “How Neoliberal Is China’s Reform: The Origin of Change During Transition.” EurasianGeography and Economics 51(5): 619-631.
- Yeung H.W. 2004. Chinese Capitalism in a Global Era.Towards Hybrid Capitalism. London: Routledge.
Alcune dichiarazioni di Xi Jinping del dicembre 2012: http://www.bbc.com/news/world-asia-china-21790384
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Foto: than777