Nelle dinamiche tra Cina e India il Tibet è al centro di tensioni e contese che non mancano di riflettersi sul più ampio quadro regionale e che solo un pragmatico approccio diplomatico può potenzialmente spianare
1950, I SECOLARI EQUILIBRI CROLLANO – È con l’affermazione del Buddhismo a Lhasa verso la fine dell’VIII secolo che il Tibet, un tempo Paese guerriero, diventa Paese ispirato a ideali di pace e armonia, guidato da un clero determinato a resistere alla modernità e alle sue distorsioni, e determinato a non cedere all’influenza politica straniera né al militarismo. Per secoli il Tibet ha portato avanti la propria politica pacifista diventando l’unico Paese al mondo che si è sempre astenuto dall’ingerenza negli affari esterni, dal coinvolgimento nel gioco di potere della regione, e da ogni tentativo di espansione territoriale. Come per molti altri Paesi, però, la condanna del Tibet sono state le sue stesse risorse naturali, che ne hanno fatto una preda appetibile per i vicini, che hanno infatti da sempre cercato di penetrare. L’apice di questa penetrazione è raggiunto nel 1950, quando la Cina avvia la propria occupazione militare che giunge a compimento nel 1951, quando il Paese – nonostante la Cina ne avesse pubblicamente garantito l’autonomia e parlasse di Tibet Autonomous Region – viene di fatto subordinato a Pechino. A spingere la Cina all’occupazione non sono state solo le risorse minerarie e idriche dell’altopiano, ma anche il fatto che per Pechino esso rappresenta la porta d’accesso al Sud-Est Asiatico; e così, nel 1950, dopo secoli in cui il Tetto del Mondo era stato un cuscinetto tra India e Cina, questo suo ruolo crolla e i due Paesi si trovano per la prima volta ad avere un confine condiviso.
LE TENSIONI PER I CONFINI – Con la nuova contiguità tra Cina e India e il conseguente venir meno dei tradizionali equilibri, il Tibet diventa (ed è tuttora) il cuore delle tensioni tra Pechino e New Delhi. Infatti, con l’indipendenza dell’India nel 1947 e la nascita della Cina Comunista nel 1949, entrambi i Paesi erano impegnati per la prima volta nella loro storia nel processo di definizione dei confini. Dal 1950, però, tale processo va a coinvolgere direttamente le loro relazioni bilaterali, con riflessi che coinvolgono altri Paesi della regione (Bhutan, Bangladesh e Nepal) e con dispute territoriali che non tardano a profilarsi. Le tensioni relative ai confini, infatti, sono diventate realtà fin da subito, con la mancata accettazione da parte della Cina della Linea di McMahon che segna il confine indo-tibetano; e hanno portato alla guerra sino-indiana del 1962. È negli ultimi anni, però, che Pechino è diventata sempre più aggressiva: sono aumentate le incursioni di confine nello Stato indiano dell’Arunachal Pradesh (una delle più recenti nel settembre scorso, mentre lo stesso Xi Jinping era in India) ed è aumentata la prepotenza della Cina nell’avanzare pretese territoriali su questo Stato (che Pechino chiama Tibet del Sud) e sul Jammu & Kashmir. Dal canto suo l’India, dove il Dalai Lama risiede e dove hanno trovato rifugio 120.000 tibetani, ha reagito rafforzando la propria posizione sul Tibet e mantenendo così aperta la questione tibetana (che Pechino vorrebbe invece vedere definitivamente accantonata nel dialogo politico internazionale), rispondendo a ogni mossa cinese (dopo le incursioni di settembre il Governo indiano ha autorizzato proteste pro-tibetane durante il soggiorno di Xi) e vincolando, come preciseremo più avanti, il proprio riconoscimento della cosiddetta One China al riconoscimento cinese della One India.
LE TENSIONI PER L’ORO BLU – Parte delle dispute tra Cina e India sono poi le risorse idriche del Tibet. Il controllo dell’altopiano tibetano, infatti, dà alla Cina il potere di sfruttarne le ricchezze naturali e di controllare 7 fiumi che rappresentano vere lifelines per i Paesi verso i quali scorrono. Questo crea inevitabilmente un vantaggio per la Cina nei rapporti con l’India e con gli altri paesi a sud – che da quei fiumi dipendono – e rende i progetti cinesi nell’altopiano forieri di nuove tensioni. Tra il 2000 e il 2009, ad esempio, Pechino ha investito 46 miliardi di dollari in opere infrastrutturali volte a massimizzare lo sfruttamento delle acque tibetane, ricavare energia idroelettrica e migliorare il trasferimento delle risorse verso la Cina. Tra i fiumi recentemente interessati dalla sconsiderata politica cinese di sfruttamento, poi, c’è il Brahmaputra, sul quale la Cina vorrebbe costruire una diga, deviandone il corso per indirizzare a proprio esclusivo vantaggio lo sfruttamento delle sue acque. Da questa politica cinese, allora, non possono che emergere tensioni che si vanno ad aggiungere a quelle territoriali e che rendono il Tibet cuore delle dispute sino-indiane sotto più aspetti.
IL POTENZIALE PONTE TIBETANO – Con le crescenti pretese territoriali della Cina, le tensioni per lo sfruttamento delle risorse del Tibet e la sfida posta da Pechino agli interessi di New Delhi nella regione (lungo il confine, ma anche nell’Oceano Indiano), diventa fondamentale per l’India cercare un miglioramento delle relazioni; ed essendo il Tibet al cuore delle tensioni regionali tra i due Paesi è dalla questione tibetana che dovranno partire i tentativi di distensione. Per l’India, premere per un allentamento della presa cinese sul Tibet sarebbe uno sforzo destinato al fallimento, condivisibile sul piano della tutela del principio di autodeterminazione ma non sul piano di una razionale lettura politica di quella che è la realtà dei fatti. In questo contesto, la migliore speranza è per una soluzione diplomatica tra India e Cina, che converta il Tibet da centro di tensioni a ponte di cooperazione (bilaterale e regionale). Da un lato, allora, l’India dovrebbe continuare a collegare il riconoscimento della One China al riconoscimento della One India: la Cina vedrebbe così il riconoscimento del proprio territorio come da essa voluto vincolato al riconoscimento dei confini indiani come definiti da New Delhi, e quindi all’abbandono di ogni propria pretesa su Jammu & Kashmir e Arunachal Pradesh. Un quid pro quo, questo, essenziale per l’avvicinamento tra Cina e India. Dall’altro lato New Delhi, nel proprio discorso politico-diplomatico, dovrebbe enfatizzare maggiormente come la questione tibetana sia chiave di volta per avere a livello politico pacifiche relazioni sino-indiane: senza risoluzione della questione del Tibet tali relazioni saranno sempre ostacolate dall’ombra cinese su Lhasa, impedendo a entrambi i Paesi di godere dei vantaggi che una distensione porterebbe. Si tratta quindi di sottolineare i benefici che Pechino stessa ricaverebbe dalla stabilizzazione che la soluzione della questione tibetana produrrebbe.
IL POTENZIALE EQUILIBRIO PER LA REGIONE – Una soluzione politico-diplomatica, e una conseguente maggiore cooperazione, non porterebbe vantaggi solo ai due giganti asiatici, ma anche agli altri Paesi della regione – sui quali le loro relazioni hanno riflesso e sui quali l’aggressività cinese diffonde timori – e al Tibet stesso, che smetterebbe di pagare il prezzo di essere pedina usata dalla Cina per espandere la propria influenza regionale, sia in termini di pretese territoriali sia in termini di sfruttamento delle risorse.
Marta Furlan
[box type=”shadow” align=”aligncenter” class=”” width=””]
Un chicco in più
La Linea di McMahon fu negoziata nel 1914 durante le conferenze per l’Accordo di Simla tra Tibet, India Britannica e Cina. L’Accordo prevedeva la divisione del Tibet in Outer Tibet, sotto il diretto controllo del governo di Lhasa, e Inner Tibet, sotto la giurisdizione di Pechino. La Cina, però, si ritirò dai negoziati per l’impossibilità di raggiungere un accordo sul confine sino-tibetano e ha da sempre invocato la sua mancata ratificazione come pretesto per disconoscere la Linea di McMahon e le altre clausole dell’Accordo. [/box]
Foto: lhuboomrfa