Il primo martedì di novembre si avvicina, la superpotenza americana è pronta a scegliere il proprio timoniere. Obama contro Romney: il mondo sta a guardare, e Afghanistan e Pakistan drizzano le orecchie. La campagna elettorale guarda in buona parte alle tematiche interne, e per quanto riguarda gli esteri ora l’attenzione sembre rivolta maggiormente al Medio Oriente. Lo scenario afghano, però, non si può proprio dimenticare, e in due puntate cerchiamo di fare luce su alcune tematiche che meritano estrema attenzione
(Prima parte)
ANTEFATTO – Il Cairo, 4 giugno 2009. Così Obama: “Siatene pur certi, non abbiamo intenzione di tenere le truppe in Afghanistan. È costoso e politicamente complesso portare avanti questo conflitto.” Le “condizioni sul campo di battaglia” erano allora diverse, sicuramente mutate rispetto al 2002. Otto anni erano trascorsi dal trauma dell’11 settembre 2001 e dall’inizio della cosiddetta “guerra globale contro il terrorismo”. L’amministrazione repubblicana guidata all’epoca da George W.Bush fu costretta a misurarsi con un nuovo tipo di minaccia, sorto dal vuoto di sovranità dell’Afghanistan talebano e dalla proliferazione di organizzazioni terroristiche transnazionali, non assoggettabili al controllo degli stati. Il gigante si scoprì vulnerabile, forse per la prima volta. Messi in discussione i principi sui quali l’eccezionalismo americano fu costruito: il mantenimento della guerra a distanza, la “santuarizzazione” del proprio territorio.
LE QUESTIONI IRRISOLTE – Ad undici anni da quel tragico giorno, a 3 anni dalla dichiarazione del Cairo, i soliti enigmi tormentano la politica estera statunitense: l’Afghanistan si è trasformato in un pantano? È una guerra che può essere ancora vinta? La cosiddetta rivoluzione degli affari militari agognata da Donald Rumsfeld nel 2001 e perpetrata con insistenza dall’intero apparato militare ha portato i suoi frutti? Ma soprattutto, l’Afghanistan ha ancora la possibilità di consolidarsi in quanto entità statale autonoma moderna e sedersi al tavolo negoziale con la più importante controparte regionale, il Pakistan? Stando a quanto dichiarato ultimamente da Anders Fogh Rasmussen, Segretario Generale Nato, in un’intervista per la rivista Monocle, la comunità internazionale ha più volte commesso l’errore di sottostimare l’importanza delle sfide poste dall’Afghanistan, paese abbandonato a se stesso in seguito all’ormai lontana invasione sovietica del 1979 e a 30 anni di guerra civile. Incalzato sulla “qualità” dell’intervento nel paese, Rasmussen non esita a definire l’Afghanistan un “successo”. Questione di percezioni secondo il tecnocrate danese. “Dall’inizio della campagna militare, nessuno considera il paese un paradiso per il terrorismo. È un grande successo, ma c’è ancora molto da fare.”
C’È ANCORA MOLTO DA FARE – Fanno eco a quanto sostenuto dal Segretario Generale dell’alleanza atlantica le parole del Generale John Allen, comandante dell’ International Security Assistance Force (ISAF), convinto che quello attuale sia un momento di capitale importanza per la campagna intrapresa nel lontano 2001. Non esita a mostrare il suo orgoglio il Generale Nato riguardo all’efficacia dell’Afghan National Security Forces, chiamata, secondo gli ottimisti, a gestire autonomamente la fase di abbandono del paese da parte delle truppe occidentali, prevista per il dicembre 2014. L’ottimismo del Generale sembra però essere messo in discussione dalla realtà dei fatti. Allo stato attuale delle cose, è mera utopia pensare che la polizia e l’esercito afghani riescano ad essere efficaci ed operativi a partire dal 2013. Assumendo il controllo delle zone sorvegliate dagli occidentali, riceveranno assistenza tecnico-militare dall’apparato militare statunitense, il cui compito verrà ripensato: “from combat to a training role”, per dirla con John Allen. Tutto ciò sembra non bastare. Isaf può essere fiduciosa riguardo all’esito della sua revisione strategica, ma le sfide poste dalla minaccia “insorgenza” non saranno rimosse con il mero impiego della forza.
AL QAEDA NON PERDE SLANCIO – Lungi dall’essere costretta allo status di ideologia e dunque priva di una struttura gerarchico- decisionale, come da più parti sostenuto, l’organizzazione terroristica sembra si indebolita, ma non sconfitta, come dimostra la reviviscenza operativa che ha contrassegnato la primavera trascorsa. Gli attacchi di aprile a 7 edifici nel centro di Kabul, tra cui la sede del parlamento, quella della Nato e di alcune ambasciate dimostrano l’attualità della sfida. La rivendicazione che seguì parlava chiaro: “Questo messaggio è per chi sosteneva che avessimo perso slancio”. Washington ha sicuramente recepito. L’Afghanistan non è pronto a marciare da solo. Lo si evince dalla realtà dei fatti, dalle percezioni politiche, dagli stessi rapporti Nato: le forze di sicurezza afghane non saranno in grado di affrontare i combattimenti senza aiuti esterni. È impossibile in uno Stato che “Stato non è, non è stato e, forse, non sarà”. L’Afghanistan come entità statale funzionante, con una politica economica unificata esiste sulla carta, non nella realtà. Le economie locali funzionano oggi come hanno fatto per secoli e le strutture statali (esercito, polizia) dipendono indissolubilmente dalla compartecipazione e dalle competenze di matrice occidentale. Quanto al governo Karzai, finora non è stato all’altezza delle aspettative e se continua sul percorso attuale è piuttosto improbabile che riesca a costituire uno Stato afghano funzionante.
(I. continua)
Simone Grassi