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Il futuro di Kabul (II)

Seconda parte della nostra analisi sulle prospettive afghane. Tra i progetti per cercare di ottenere la stabilizzazione vi è anche quello di una frammentazione del Paese in “macro-regioni” che tengano conto delle diversità etniche e culturali. Intanto, dietro l’angolo incombono le elezioni del 2014, in occasione delle quali Hamid Karzai dovrà cedere il passo. A chi? I Talebani sono sempre dietro l’angolo

 

LOCALIZZARE IL POTERE – Washington e Londra, principali “esportatori” di democrazia, stanno vagliando l’ipotesi di un Afghanistan suddiviso in regioni, ciascuna di esse amministrata da un consiglio, espressione della frammentazione etnica e culturale del paese, e “supervisionata” dal grande occhio occidentale. Pensato con il preciso intento di frustrare l’intrinseca debolezza del governo afghano e porre rimedio alle annose dispute tribali che potrebbero riportare il paese nel caos quando i contingenti internazionali deporranno le armi, il piano C, questo il nome in codice scelto, prevede otto macroregioni, ruotanti attorno ai più importanti centri di snodo, economici e strategici, del paese: Kabul, Kandahar, Herat, Mazar- i- Sharif, Kunduz, Jalalabad, Khost e Bamyan. Secondo Tobias Ellwood, assistente parlamentare del Foreign Office minister David Lidington e ideatore di “Plan C”, un Afghanistan regionalizzato riuscirebbe a fronteggiare le sfide poste da un futuro altrimenti incerto. Un riassestamento politico, quello previsto dal parlamentare inglese conservatore, che prende in considerazione la possibilità di un aperto dialogo con i talebani, disposti, sempre a detta di Ellwood, a collaborare solo se considerati “attori partecipi”, addirittura governatori potenziali dei “Kingdoms” afghani. In grado di meglio rispecchiare la moltitudine etnica e culturale afghana, una struttura di potere ramificata con chiari e riconosciuti centri di potere potrebbe rimodellare, moderandoli, gli interessi degli stessi taliban. La suggestione di Ellwood sembra riscuotere successo anche in ambito accademico. L’Afghanistan, a detta di Seth Jones (esperto di counter- insurgency presso la Rand Corporation)  “land of tribes” per eccellenza, guadagnerebbe in stabilità qualora la strategia occidentale mirasse a cercare soluzioni locali per problemi locali. Gli Stati Uniti, secondo la logica di regionalizzazione, hanno commesso l’errore di misinterpretare le mille sfaccettature regionali della politica afghana. Qualora la “regionalizzazione” fosse la soluzione, ne uscirebbe fortemente ridimensionato l’assunto sul quale poggiano i programmi di state- building di matrice statunitense, ovvero quello di stabilizzare il paese attraverso un governo centralizzato dal quale irradiare ordine sino alle regioni più periferiche.

 

LEAVE AFGHANISTAN TO THE AFGHANS! – Non è comunque esente da critiche la proposta di Mr Ellwood. Frammentare il paese in regioni, a detta di Thomas Ruttig, co- direttore dell’Afghanistan Analysts Network, concentrerebbe il potere nelle mani di quelli che oggi vengono chiamati local power brokers, altrimenti noti come warlords, il cui ruolo a cavallo tra il 1992 e il 1996 ha spalancato le porte alla presa di potere da parte dei talebani. Al coro dei critici si unisce Wazhma Frogh, direttore esecutivo dell’Afghanistan’s Research Institute for Women, Peace and Security. Rifacendosi al diritto di non ingerenza, tuona contro le intenzioni anglo- statunitensi propinate da Ellwood: spetta all’Afghanistan stabilire il proprio futuro istituzionale. Le colpe dell’instabilità, secondo Stephen Hadley e John Podesta, sono da ricondurre in maggior parte agli stessi Stati Uniti, tacciati dai due professori di non essere stati in grado di condurre l’Afghanistan sul sentiero della democratizzazione. Frustrata qualsivoglia spinta di legittimazione democratica del paese non resta che sperare.

 

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NON RESTA CHE SPERARE – La Carta Costituzionale costringerà il governo Karzai a fare un passo indietro nel 2014. Il processo elettorale potrebbe idealmente facilitare la creazione di un sistema politico maggiormente inclusivo e legittimo, ma la mancanza di adeguati registri di voto e l’incapacità organizzativa dei partiti locali, deboli e marginalizzati, rendono nebuloso il futuro afghano. La transizione politica sarà traumatica, specialmente se gli Stati Uniti e i loro alleati non convoglieranno su questa fase la stessa intensità di sforzo profuso per garantire sicurezza. La stipula, in maggio, di un Strategic Partnership Agreement sembra rispondere a tale esigenza. L’accordo prevede un impegno di lungo termine che vedrà protagonista l’apparato militare statunitense in qualità di garante per la sicurezza con il preciso intento di consolidare i progetti di institutional building, a dimostrazione di quanto l’Afghanistan possa significare per gli interessi americani, anche in vista delle imminenti elezioni. Il 2014 si avvicina. Il contingente occidentale lascerà il paese, consegnando la cosiddetta “guerra globale al terrore” ai libri di storia. Prima che ciò avvenga, dovrà essere deposto il “governo ombra talebano”, capillarmente organizzato attraverso un sistema di autorità in tutte le aeree cardine dell’Afghanistan pashtun. Il movimento agisce con più disciplina e, nonostante la corruzione e i legami con il narcotraffico, i taliban pretendono meno tangenti dei funzionari governativi o della  forza di polizia. È questo il pericolo: che l’Afghanistan scelga il regime talebano come il minore dei mali. Intanto continua la guerriglia. “Non ho idea del perché lo stiano facendo”, commentò un ambasciatore britannico in seguito all’ondata terroristica della scorsa primavera, “tra due anni ce ne andremo. Non devono fare altro che aspettare”.

 

AFPAK – Dal futuro dell’Afghanistan dipendono le sorti della stabilità della regione. Il Pakistan, potenza regionale e “santuario” per alcuni membri della resistenza afghana, agogna di poter rafforzare il suo ruolo nella regione. Obama, che ha fatto della regione Afghanistan – Pakistan uno dei pilastri attorno al quale ruota la strategia di sicurezza nazionale (la cosiddetta Af-Pak strategy), è ben conscio del fatto che dal futuro delle relazioni con il Pakistan, dipenda la stabilità generale di un’area vitale per gli interessi degli Stati Uniti. L’establishment statunitense sembra condividere i timori dell’ élite politica afghana riguardo al ruolo del Pakistan, al quale si riconduce l’intento di voler installare a Kabul un governo fedele ad Islamabad. I partiti islamici pakistani, è noto, mantengono stretti legami con i talebani afghani, avvalorando la tesi che vede il Pakistan come primo fattore causante instabilità. La presenza statunitense in Afghanistan andrà ben oltre il 2014. Che dietro ai progetti di state building  e di supporto logistico- militare alle forze di sicurezze afghane si nasconda, non troppo velatamente, l’intenzione di stabilizzare i confini tra Afghanistan e Pakistan? Che la “prospettiva regionale” sia da inquadrare in tal senso? Non sarebbe la prima volta. Già nel XIX secolo l’impero britannico rispose all’instabilità caratterizzante il confine Afghanistan-India restituendo autonomia alle tribù di frontiera. Che una strategia simile possa essere funzionale anche ai tempi della contro insorgenza?

 

Correva l’anno 2009. Il Senatore David Obey ammonì il Presidente. “Sarà la nuova strategia Afghanistan-Pakistan a divorare la sua presidenza”. Profezia o insensato allarmismo? Il primo martedì di novembre è vicino. È tempo di risposte, e l’establishment militare a stelle e strisce sa che il segreto delle guerre di contro insorgenza è esserci.

 

Simone Grassi

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Simone Grassi
Simone Grassi

Fiero membro della cosiddetta generazione Erasmus, ho studiato in  Italia e in Francia. Laureato magistrale in Relazioni Internazionali (Università degli Studi di Milano),  frequento  ora un Master di ricerca in Economia Politica all’Università di Bristol. Convinto europeista, sono stato stagista alla Rappresentanza in Italia della Commissione europea. Oltre all’economia e alla politica internazionale, mi affascina il mondo della cooperazione allo sviluppo, un mondo che ho maggiormente scoperto durante un tirocinio in UNICEF.

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