Sospeso tra un Nordafrica in ricerca di rinnovati assetti politici e una dimensione subsahariana che sta tentando di rendere sostenibile la crescita delle proprie economie, tra conflitti interni e terrorismo, tra il disinteresse dei media occidentali e l’azione sotterranea delle diplomazie. Tutto questo è il Mali.
LE INGENUITÀ DI IERI – La conformazione territoriale del Mali contemporaneo, con quelle due fasce di terra poste al di sotto del Maghreb che si allargano a Nord-Est e Sud-Ovest a partire da uno stretto corridoio centrale, e quel confine con la Mauritania quasi ad angolo retto che pare un esercizio di geometria analitica, sembra incarnare efficacemente quel paradigma in ordine al quale per ridisegnare le estremità dei Paesi, nella storia del continente africano, si è fin troppo spesso utilizzato il righello degli interessi piuttosto che la complessità della sapienza socio-antropologica, la matita della frettolosa ambizione personale in luogo dell’approfondimento delle complessità etniche, delle appartenenze, dei legami di sangue, delle culture ufficiali e delle subculture informali. Nonostante il semplicismo delle scelte passate, impossibile sperare che un Paese confezionato a tavolino senza riguardo per la geografia umana che lo percorre possa conservare a lungo pace e stabilità, nonché assenza di rivendicazioni territoriali, focolai indipendentisti e rivitalizzazioni di estremismi del più ampio respiro. Questo infatti è ciò che sta accadendo oggi in Mali, e che in verità accade fin dai primi passi successivi alla decolonizzazione; ma prima di procedere con qualche considerazione sui movimenti endogeni ed esogeni che impattano sul Mali in questi ultimi anni, è utile riprendere brevemente le questioni fondamentali – e ormai quasi secolari – che ne costituiscono il fulcro originario.
Fig. 1 – Ribelli tuareg in Mali
UNA CONTESA DI LUNGO CORSO – Il continente africano è percorso a ogni latitudine da conflitti cosiddetti “etnici” di media e larga scala, e accade spesso che a negoziare tra lo Stato e i gruppi separatisti siano non solo i rappresentanti delle reciproche parti, ma anche – e soprattutto – alcuni Paesi confinanti, o nazioni europee che dal punto di vista geostrategico e commerciale si sentano parti in causa particolarmente coinvolte. Accade poi quasi sempre che tali condizioni vengano a coincidere, e cioè che a negoziare tra le istituzioni dello Stato e le fazioni di ribelli sia la potenza regionale limitrofa maggiormente vicina all’UE, solitamente come retaggio del trascorso coloniale. E quando la questione arriva ai tavoli del Servizio Europeo per l’Azione Esterna – SEAE (la cosiddetta “diplomazia europea”) -, ecco che un gioco di diplomazie multilivello si manifesta in tutte le sue contraddizioni, con una diplomazia comunitaria che si assomma a quella di un Paese membro talvolta contraddicendola, unitamente ad ambasciatori della potenza regionale africana che si trovano impantanati in tale incastro e non hanno il peso e la credibilità di farvi fronte risolvendo il dilemma con le proprie forze. Il ruolo di middle player questa volta tocca all’Algeria, che non solo è stata sfiorata appena di striscio dai moti rivoluzionari della Primavera araba, e dunque conserva una relativa stabilità, ma intrattiene con l’ex madrepatria francese rapporti politici ed economici di eccellente spessore. Da non dimenticare, in aggiunta, come l’Algeria abbia interesse a spegnere le frange più estremiste e dinamiche del terrorismo maliano per paura che possano transitare proprio da Algeri per poi riversarsi in Niger e in Libia, andando a costituire un pericoloso accerchiamento; a maggior ragione se si considera che l’Algeria, già insanguinata dall’islamismo radicale che l’ha travolta negli anni Novanta, deve gestire in primis l’emergenza del sedicente Stato Islamico che – come confermano i comunicati dell’Interpol – preme alle porte orientali. Il territorio algerino, ad ogni modo, non si presta ad essere solamente una corsia di passaggio, ma anche una regione di stazionamento, specialmente nei boschi dei monti della Kabylia, rifugio di milizie che mai hanno desistito a opporsi al Presidente Bouteflika.
Infine, è utile ricordare che anche il Mali, insieme al Senegal sotto denominazione di “Federazione del Mali”, ottenne nel 1960 l’indipendenza proprio dalla Francia; era infatti quasi esclusivamente francese l’Africa coloniale occidentale, mentre al Regno Unito rispondeva quella a Levante, con Belgio, Spagna, Italia e Portogallo relegati a un ruolo di secondo piano. A sé stante l’eredità coloniale tedesca, con una forte presenza di Berlino al termine dell’Ottocento annullata col Trattato di Versailles che impose alla Germania durissime condizioni di pace post-primo conflitto mondiale.
Fig. 2 – Una scena di vita quotidiana a Bamako, capitale del Mali
LE PREOCCUPAZIONI ODIERNE – Che il fenomeno migratorio sia una costante nella storia dell’umanità è vero, ma è altrettanto corretto affermare che esodi di queste proporzioni verso il Vecchio continente per motivi umanitari non si erano mai registrati nella storia recente. Chiaro dunque come tali migrazioni – sul fronte mediterraneo centrale ma anche attraverso la rotta balcanica, fino al percorso per l’ingresso nella Spagna meridionale – abbiano pressoché monopolizzato il dibattito mediatico intorno alle regioni che circondano l’Unione Europea, unitamente al conflitto in Ucraina. Ma se la Siria brucia e in Libia regna nel disordine, pari attenzione meriterebbero quei conflitti “a bassa intensità” localizzati nel Sahel che, pur mietendo un minor numero di vittime nel breve periodo, non solo si stratificano e si perpetuano nei decenni lasciando a terra centinaia di migliaia di cadaveri, ma costituiscono corridoi privilegiati per i flussi del terrorismo più o meno organizzato verso i Paesi più ricchi e strutturati. Anche quello in Mali, dunque, è un conflitto dai tratti meno eclatanti rispetto a quello siriano, ma probabilmente non meno pericolosi, poiché terreno di addestramento e passaggio per decine di gruppi armati affiliati al terrorismo internazionale e diretti in Medio Oriente e nei Paesi – tanto dell’Africa quanto dell’Europa – che si affacciano sul Mediterraneo.
Fig. 3 – Forze delle Nazioni Unite in Mali
IL RUOLO DELLE NAZIONI UNITE – L’operato dell’ONU nel Continente nero, si sa, non ha mai brillato per prontezza di riflessi ed efficacia operativa, con l’arrendevolezza più eclatante registrata durante il genocidio di tutsi (e hutu moderati non obbedienti alle milizie) perpetrato in Ruanda nella primavera del 1994. E poi ancora Somalia, Darfur, Sierra Leone, Eritrea, e via discorrendo, fino a giungere all’imbarazzante difficoltà con cui il rappresentante speciale per la pacificazione libica e capo dell’UNSMIL Bernardino León sta facilitando il dialogo tra fronti contrapposti. Non che la colpa di tali farraginose lungaggini sia da addossare ai soli caschi blu, intendiamoci, ma certamente il sistema Nazioni Unite – ancor più negli apparati di peacekeeping e peacebuilding che ne incarnano le funzioni più rilevanti – necessiterebbe di un’urgente revisione. La missione MINUSMA avviata nel 2013, che ha assorbito l’AFISMA subentrando all’Operazione Serval, ha una forza autorizzata fino a 12640 soldati [fonte: Ministero della Difesa della Repubblica Italiana]: un po’ poco, considerata la vastità del territorio e le insidie naturali che lo percorrono, nonché l’eterogenea pluralità di attori avversi con la quale si deve misurare. Vi è da porre l’accento, ad ogni modo, sul fatto che i peacekeepers dell’ONU, pagando in una quarantina di casi con la vita tale impegno, stanno riuscendo nell’intento di ripristinare la presenza governativa in alcune città settentrionali del Paese, smarcandosi parzialmente dagli schiaffi dell’Eliseo (il ministro della Difesa francese Jean-Yves Le Drian li aveva dichiarati impreparati e ritardatari) e da alcuni errori operativi (come il grave ferimento di manifestanti a Gao lo scorso 27 gennaio, riferito da Nigrizia Multimedia).
Fig. 4 – Il controverso generale ruandese Jean Bosco Kazura è il comandante militare scelto dall’ONU per la missione in Mali
GLI SVILUPPI PIÙ RECENTI – Anche il terzo round di negoziati di pace, svoltosi lo scorso ottobre, non ha conseguito i risultati sperati, con la questione dello “statuto politico” da assegnare alla porzione settentrionale del Paese (federale o indipendente) che ancora osserva i lealisti di Bamako e i Tuareg dell’Azawad posti su posizioni troppo distanti. Questi insuccessi iniziano però a essere guardati con diffidenza dalla società civile, e in particolare dagli strati di quest’ultima meno coinvolti nelle dialettiche del potere: i rappresentanti del Nord del Mali che siedono ai tavoli delle trattative, poiché scelti con processi che di inclusivo hanno ben poco, non sono più ritenuti portavoce credibili del desiderio di pace espresso dalla popolazione delle regioni di Timbuct, Gao e Kidal; in special modo nelle componenti più giovani. D’altro canto, nell’ormai destrutturato contesto istituzionale maliano, la legittimità bottom-up ha lasciato il posto alla dimensione top-down, in cui il riconoscimento vigente si trascina per inerzia senza dare ascolto alle pressanti istanze di rinnovamento. Un rinnovamento che propenderebbe per qualche concessione autonomistica dal Governo centrale in cambio della pace, piuttosto che per l’esacerbamento di negoziati che paiono esausti. Intorno al nucleo primo del contendere, infatti, ruota un’instabilità sempre più voraginosa che trascina con sé vuoti di potere e derive letali, fungendo da polo di aggregazione per terroristi della più varia estrazione (Ansar al-Sharia, Al-Qāʿida, ISIL-ISIS, cellule nigeriane e camerunensi di Boko Haram, solo per citarne alcuni). Gli attacchi sono all’ordine della settimana, in Mali, e tutto ciò si protrae da svariati anni. Amnesty International, nel suo ultimo Rapporto sui Diritti Umani nel mondo, denuncia stupri e violenze d’ogni sorta da parte degli insorti, ma anche esecuzioni sommarie e arresti arbitrari autorizzati dal Governo. Rimane da chiedersi, in merito alla Politica estera e di sicurezza comune europea, che forse dovrebbe farsi carico di questo nodo irrisolto al pari di quello sul nucleare iraniano: «UE, dove sei?»
Questa, ufficialmente, potrebbe essere l’ultima estate di scontri, grazie agli accordi bilaterali firmati lo scorso giugno. Ma i problemi etnici e culturali permangono: cosa fare del principio dell’autodeterminazione dei popoli? Certo, la categoria giuridica dell’occupazione endogena non esiste, la legittimazione formale è riservata al contrasto alle occupazioni straniere, alle discriminazioni razziali e alle ingerenze neocoloniali. Ma non sarebbe giunto il momento di rivalutare l’importanza della diplomazia culturale, prestando ascolto a sensi d’appartenenza più profondi di qualunque legge? L’Occidente tace, in attesa di risposte che probabilmente non giungeranno mai.
Riccardo Vecellio Segate
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Un chicco in più
Alcune date chiave nel percorso recente del Mali:
1972-1973: il Mali rientra in un territorio – quello saheliano – che, caratterizzato da estrema desertificazione (con fenomeni di siccità ed erosione del suolo tra i più violenti al mondo) ma anche da impressionanti sbalzi di temperatura e ampie oscillazioni pluviometriche, rende ancor più difficoltosa la ricerca e la repressione di cellule criminali afferenti al terrorismo locale e internazionale. Nei due anni indicati, a causa dei suddetti squilibri climatici, si verificò un’ecatombe animale cui seguì ben presto un’emergenza umanitaria: fenomeni, questi ultimi, che di certo non contribuiscono alla stanzialità delle tribù e all’ordine sociale.
6 aprile 2012: con una solenne dichiarazione di Mossa Ag Attaher, i seguaci del Mouvement National de Libération de l’Azawad (MNLA) proclamano unilateralmente la separazione dell’Azawad dal fronte meridionale del Paese. Sconcerto nella comunità internazionale, che si affretta a negare qualsivoglia riconoscimento ufficiale al rinnovato “status” promesso e promosso dal MNLA..
25 aprile 2013: con la Risoluzione n. 2100 del Consiglio di Sicurezza, le Nazioni Unite approvano MINUSMA, guidata dalla Danimarca e costituita da militari in prevalenza africani (da Burkina Faso e Ciad).
25 giugno 2014: Risoluzione n. 2164 del Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite in ordine ai compiti spettanti alle forze ONU presenti in Mali.
10 ottobre 2014: le forze speciali francesi intercettano nella zona desertica a nord del Niger un camion con tre tonnellate di armi pesanti (principalmente sistemi antiaerei e cannoni) provenienti dal sud della Libia e dirette verso il nord del Mali, chiaro sintomo di un riarmo senza precedenti nella regione.
28-29 ottobre 2014: “Seconda battaglia del Tigharghar” (imponente operazione militare francese nella valle dell’Ametetai, nell’estremo nord del Mali).
1 marzo 2015: ad Algeri viene firmato un accordo quadro per la pace tra il Governo di Bamako e alcuni gruppi armati.
15 maggio 2015: il gruppo Coordination des mouvements de l’Azawad (CMA) decide di parafare – ma non ancora sottoscrivere – il pre-accordo di Algeri.
20 giugno 2015: Sidi Ould Brahim Sidat, delegato del CMA, e Mongi Hamdi, delegato ONU, firmano definitivamente la pace in Mali. La mediazione franco-algerina sarà però ancora preziosa, e il futuro della nazione appare oltremodo incerto, a causa di punti ancora in sospeso, tra cui il disarmo di tutte le milizie (alcune ancora attive a pieno regime), la ricostruzione post-bellica e i criteri di composizione del nuovo esercito nazionale
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