Hot Spot – Vi proponiamo una riflessione a più voci sulla crisi in corso tra Iran e Arabia Saudita. Proviamo a mettere in ordine i principali fattori, espliciti e nascosti, di questo scontro che sta sempre più emergendo
I fattori scatenanti sono sostanzialmente due: la guerra civile in Siria e il prossimo annullamento delle sanzioni internazionali a Teheran
di Emiliano Battisti
[dropcap]D[/dropcap]opo anni di scaramucce diplomatiche e guerre più o meno coperte per procura, finalmente Arabia Saudita e Iran hanno gettato la maschera e iniziano a confrontarsi apertamente. I fattori scatenanti sono sostanzialmente due: la guerra civile in Siria, dove i due Paesi sono schierati su fronti opposti e il prossimo annullamento delle sanzioni internazionali a Teheran dopo l’accordo sul programma nucleare. Quest’ultimo fatto riporta il Paese sul palcoscenico diplomatico internazionale con pieno diritto e diversi Paesi, compreso il nostro, sono pronti a riavviare le attività economiche e gli accordi commerciali, soprattutto per quanto concerne il settore energetico. L’Arabia Saudita vede così in pericolo la posizione di forza, detenuta per anni, in Medio Oriente, soprattutto grazie al proprio accreditarsi come bastione della stabilità in una regione più che mai turbolenta. Inoltre, non va dimenticato che il regno saudita si è impantanato in una dispendiosa (e per ora infruttuosa) guerra in Yemen per fermare i ribelli Houthi (sostenuti, guarda caso, proprio dall’Iran) ed è accusato, sempre meno velatamente, di essere sponsor di diversi gruppi jihadisti. Difficilmente la contesa sfocerà sul piano militare, almeno direttamente, poiché entrambi i Paesi non possono permetterselo: i sauditi perché già over-impegnati in Yemen (e con la “guerra del petrolio” che inizia a farsi sentire sulle casse nazionali); gli iraniani perché perderebbero in un colpo solo lo status guadagnato in anni di negoziati internazionali sul programma nucleare e hanno le forze migliori impegnate in Siria. Pertanto, il confronto si dovrebbe mantenere su alti toni e azioni di diplomazia “aggressiva”, oltre ad acuire la “guerra del petrolio” in seno all’OPEC. Chi si trova in una posizione molto scomoda sono gli Stati Uniti di Obama, i quali sono stati i promotori dell’accordo sul nucleare iraniano (resistendo persino alle forti pressioni israeliane e saudite), ma non possono (o vogliono) sciogliere il legame con i sauditi (datato 1945), testimoniato anche dall’ingente supporto alle operazioni del regno in Yemen (con intelligence, aerei per il rifornimento in volo, senza i quali la campagna aerea non potrebbe avere luogo e fornitura di armamenti).
Prima probabile conseguenza sarà il fallimento o stallo dei negoziati per la Siria
di Veronica Murzio
[dropcap]L[/dropcap]’esecuzione dell’Ayatollah al-Nimr ha avuto conseguenze prevedibili: violente proteste e uno scontato assalto all’ambasciata Saudita di Teheran. La conseguente rottura dei rapporti diplomatici ha esacerbato un clima di reciproche accuse tra le due potenze con un’altra polarizzazione settaria in tutta la regione. Prima probabile conseguenza sarà il fallimento o stallo dei negoziati per la Siria. Le responsabilità e le ragioni per questa escalation sono diverse, ma la mia sensazione è che abbiano perso il controllo della narrativa della guerra. Entrambi i governi si presentano come protettori delle popolazioni Sciite (gli iraniani) e Sunnite (sauditi) e a tal fine appoggiano milizie che si contrappongono sia in Siria che Iraq. L’aver martellato i propri cittadini con notizie di massacri di corregionali rende però ora impossibile sia a Teheran che a Riyadh l’accettazione di compromessi senza rischiare disordini. Questo ha portato a decisioni che invece di calmare la situazione la rendono ancora più fragile.
Le esecuzioni sono la valvola di sfogo contro il mutamento degli equilibri locali e servono da miccia per provocare una reazione sciita
di Sveva Sanguinazzi
[dropcap]L[/dropcap]e condanne a morte eseguite in Arabia Saudita sono un’aperta provocazione al rivale iraniano per assicurarsi l’egemonia in Medio Oriente e un’espediente per sanare il malcontento in patria. Nel Golfo è concreta l’insofferenza popolare verso l’assolutismo della dinastia Al Saud, acuita dall’incertezza e dalla disparità sociale causate dall’andamento altalenante del prezzo del petrolio, mai così basso dal 2004 (33$/barile). Già dai primi mesi delle primavere arabe, lo sceicco sciita al-Nimr, autorevole portavoce di richieste di democratizzazione e unità islamica, metteva in discussione la dottrina wahhabita (ostile agli sciiti) e il ruolo saudita di leader della umma. Dunque, la sua esecuzione, ufficialmente avvenuta nel nome della lotta al terrorismo, serve in realtà da monito per dissuadere qualsiasi forma di dissidenza interna e fornisce un ulteriore pretesto a dimostrazione della minaccia sciita-iraniana alla stabilità e alla sicurezza nazionali. L’abile richiamo alle divisioni settarie, evidentemente strumentale, giustifica la repressione interna e riporta i sunniti tra le braccia degli Al Saud, gli unici in grado di mantenere l’ordine. Altro strumento di pacificazione domestica sono le politiche petrolifere: tagliare e aumentare la produzione di greggio è, da sempre, la strategia che Riyadh, maggior produttore mondiale, mette in atto per regolare i propri introiti e garantire il benessere tipico del rentier State. Sebbene questo possa reggere nel breve periodo e possa, addirittura, danneggiare l’economia di Teheran, i sauditi sono destinati all’implosione, causata da un’economia dipendente dalla manodopera straniera e fondata sull’esclusivo sfruttamento dell’oro nero. Al contrario, l’Iran si appresta ad accogliere la fine delle sanzioni con un ben sviluppato e diversificato apparato industriale e una popolazione istruita e specializzata, entrambe basi di stabilità commerciale.
Proprio l’imminenza dell’attuazione dell’accordo nucleare e l’ipotesi che l’Iran si inserisca nei canali commerciali e diplomatici occidentali – mettendo in ombra il Regno – spinge i sauditi ad agire in modo imprevedibile nel quadro della politica di potenza per riaffermare, sia a Teheran che a Washington, che in Medio Oriente non accade niente senza l’approvazione di Riyadh. Ecco, dunque, che le esecuzioni capitali sono la valvola di sfogo per protestare contro il drastico e inarrestabile mutamento degli equilibri locali e servono da miccia per provocare una reazione sciita che ne comprometta l’affidabilità e li condanni all’isolamento. Sciiti che, nell’area mediorientale, stanno causando non pochi grattacapi agli Al Saud, incapaci di trovare, da soli, una scappatoia in Yemen, Siria e Iraq. La ricerca di un’aperta e incondizionata solidarietà sunnita (favorita dall’attacco all’ambasciata saudita in Iran) diventa una necessità strategica per marginalizzare l’influenza di Teheran e ottenere l’impegno concreto degli alleati sauditi del Golfo, i quali non sembrano spingersi oltre la rottura diplomatica con l’Iran. Alla luce delle difficoltà interne e gli intoppi internazionali, i sauditi rovesciano le carte in tavola nel tentativo di riuscire a sistemarle nell’ordine più congeniale alla dinastia. Nel frattempo, la cosiddetta comunità internazionale ha prontamente condannato l’aggressione di Teheran, pur restando cieca di fronte alle atrocità compiute dal capo del Consiglio per i diritti umani delle Nazioni Unite, ossia la stessa Arabia Saudita, con la quale esistono forti interessi strategici che diventano sempre più difficili da coprire sotto l’etichetta di Paese moderato. Difficilmente, comunque, si arriverà ad uno scontro diretto: Teheran non ha nessun interesse a compromettere i progressi in campo nucleare e diplomatico ma, forte dell’appoggio russo, può sfogarsi nel Siraq contro le pedine saudite.
La stampa iraniana sottolinea la debolezza interna dell’Arabia Saudita, additata come autrice della progressiva deriva settaria nella regione
di Giorgia Perletta
[dropcap]L[/dropcap]a narrativa della Repubblica Islamica dell’Iran sull’escalation di tensione con la monarchia saudita può offrirci una chiave di lettura interessante su come le diverse posizioni politiche guardino al fenomeno. Dalle fonti in lingua persiana, prese in considerazione in data 7 Gennaio, il discorso generalmente condiviso dalla stampa iraniana sottolinea la debolezza interna dell’Arabia Saudita, additata come autrice della progressiva deriva settaria nella regione e incapace di implementare le riforme politico-economiche. Queste sono viste alla base di una possibile frammentazione interna, come ricalcato più volte dalla testata Jomhouri-ye Eslami (voce della fazione teocratico-pragmatica facente capo all’attuale Presidente del Consiglio per il Discernimento, Hashemi Rafsanjani). La suddetta testata propone un discorso pragmatico sulle dinamiche regionali e le potenze coinvolte, spostando la visione all’esterno del Paese.
Dalla sfera più conservatrice, il quotidiano Key’han, vicino alle posizioni della Guida Suprema Ali Khamenei ed Ettela’at insistono sul fallimentare avventurismo saudita, “legittimando” la reazione iraniana come risposta alle provocazioni di un regime che sostiene il terrorismo di matrice islamica ma è “troppo piccolo per essere un nemico per l’Iran”. Anche qui il riferimento è esterno nella misura in cui l’Arabia Saudita rappresenta il motivo di tensione in Medio Oriente. Guardando invece al giornale ‘etemad legato agli ambienti riformisti e d’opposizione, seppur all’interno di un frame governativo (quindi la condanna della postura regionale saudita), esso richiama più volte il progetto concreto dell’Iran che guarda ottimisticamente alla rimozione delle sanzioni internazionali. Viene anche richiamato il discorso di Rohani che esorta il potere giudiziario a condannare gli assalti all’ambasciata e consolato saudita a Teheran e Mashad, in linea con un approccio che si mostra più attento alle dinamiche interne e tende a svincolarsi dall’accusa tout court al competitor regionale.
Quello che paradossalmente ora può succedere è che il conflitto, venendo a galla, permetta di uscire dal torpore dei proxy e renda più definiti i fronti dell’ostilità
di Marco Arnaboldi
[dropcap]A[/dropcap] volte capita che portiamo a spasso con il guinzaglio cani talmente vivaci che finiscono per essere loro a tirare noi, ed è più o meno questo quello che sta succedendo oggi agli shaykh sauditi e agli ulama iraniani. Che fra i due Paesi sia in corso una guerra fredda è notizia vecchia; ma guai a pensare che questa ne sia solo l’ennesima manifestazione copia-incolla. La novità, qualitativamente sostanziale, è che ora la situazione è totalmente sfuggita di mano agli stessi protagonisti, che da un lato devono fare la voce grossa e salvare la faccia davanti ai loro fan politici, dall’altro dissimulano, calcolano attentamente le mosse e tengono il conflitto sul filo della latenza. Ma il passo falso è già stato fatto.
Diversi commentatori arabi hanno sottolineato come l’assassinio di al-Nimr vada letto in chiave vendicativa dell’uccisione di Zahran Alloush, ex-leader di Jaysh al-Islam, un esercito di ribelli che opera nei pressi di Damasco ed è a libro paga saudita. Alloush era anche un sostenitore della disastrosa conferenza di Riyadh per la risoluzione del conflitto siriano, terminata con un nulla di fatto e un ridimensionamento del ruolo saudita. Se non bastasse questo a mostrare che i Frankenstein del Golfo hanno imparato a controllare i loro creatori, è sufficiente ponderare il peso specifico che le varie milizie sciite del Libano, Bahrain, Iraq e Siria hanno avuto nell’escalation degli avvenimenti, sin dalle prime ore della rinvigorita crisi. In termini economici, i due Paesi sono tornati alla realtà capendo di essere non solo share-holder, ma anche stake-holder delle loro insofferenze regionali. Quello che paradossalmente ora può succedere è che il conflitto, venendo a galla, permetta di uscire dal torpore dei proxy e renda più definiti i fronti dell’ostilità.
Del resto già il Siraq, teatro delle maschere per eccellenza, è diventato qualcosa di altro da sé: mediaticamente monopolizzato dall’asettico Stato Islamico, sta andando verso la cristallizzazione e potrebbe ormai evolvere in una guerra di usura, dove a spuntarla è semplicemente chi dura di più. E di sicuro così sarà se lo scontro iraniano-saudita dovesse proseguire a viso aperto. Intanto, come in un romanzo rosa, fuori dal Golfo una serie di pretendenti lottano per assicurarsi la mano delle due prime donne. Da un lato l’uomo che non deve chiedere mai: l’Egitto, che fa il distratto, tutto assorto nei problemi di ordine interno e rabbuiato dalla crisi libica, ma che di fatto non può permettersi di perdere il sostegno saudita e potrebbe presto sviluppare gelosie verso la libertina Turchia, che scaltra tiene il piede in due scarpe: flirta con i sauditi sulla questione siriana, ma dipende dall’Iran in chiave energetica (nonché di aggiustamento degli equilibri interni). E poi il ravveduto Sudan, che dopo anni di love-story con Teheran ha deciso di correre dietro a Riyadh, ed è disposto a tutto pur di assicurarsene la fiducia. Forse, persino a troppo. Non dimentichiamo che per anni il paese è stato un laboratorio di Islam politico e safe-haven di organizzazioni terroristiche: il pericolo è che le vecchie cattive abitudini non siano perse.
Assetti ben diversi, quindi. Meno fronzoli, più hard politics. Ma soprattutto più auto-coscienza: il tempo della brinkmanship, delle manovre a cuor leggero e dell’iperattività diplomatica è finito, entrambi i Paesi hanno capito che le loro mosse subiscono riverberi incontrollabili. Anche per questo motivo sono entrambi incentivati a cercare la quiete. L’Iran, soprattutto, ha la fetta maggiore di interessi nel calmare le acque, magari intrappolando nella ragnatela della mediazione anche Washington e Mosca, a suggello della propria egemonia resa legittima dai “grandi”. Più complicata la situazione per Riyadh, che non ha mai vissuto un minimo storico di tale intensità: tanto che la ricerca della serenità regionale sembrerebbe una resa più che un successo.
Gli sviluppi dei prossimi giorni sono fondamentali per capire che tiro avrà il 2016 mediorientale.