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Donald Trump e Ted Cruz: nemici o amici?

Caffè Americano – La conclusione del cosiddetto “Western Tuesday” mette in luce una situazione di profonda incertezza all’interno delle primarie americane. Una situazione burrascosa e poco chiara, che dilania entrambi i principali partiti statunitensi

TICKET TRUMP-CRUZ? –  Guardiamo innanzitutto ai repubblicani. Donald Trump ha vinto in Arizona, conquistando tutti i 58 delegati locali, mentre Ted Cruz ha conquistato lo Utah con il 62% dei consensi. La corsa verso la nomination si configura sempre più come uno scontro a due. Il miliardario newyorkese conduce con 739 delegati, seguito dal senatore texano, attualmente a quota 465. E proprio su quest’ultimo si stanno concentrando gli endorsement dei big repubblicani (da Mitt Romney a Jeb Bush), mentre il governatore dell’Ohio, John Kasich, veleggia a bassa quota con appena 143 delegati in cassaforte.
Una situazione “ufficiale” che potrebbe tuttavia nasconderne una ben più complessa (e oscura). Nonostante i proclami, appare infatti difficile ritenere che l’establishment repubblicano sceglierà seriamente di compattarsi dietro a Ted Cruz: un senatore che ha sempre polemizzato con i vertici del suo partito, facendosi ripetutamente vessillo di un netto radicalismo anti-sistema. È quindi probabile che gli attuali endorsement dispensati dai papaveri repubblicani siano più che altro finalizzati a mettere i bastoni tra le ruote a Trump, secondo i crismi di una strategia abbastanza precisa: impedirgli di arrivare al quorum dei 1.237 delegati necessari per conquistare la nomination, silurarlo, azzerare tutto e arrivare a una cosiddetta brokered convention con cui imporre alla fine un candidato d’ufficio nella corsa per la Casa Bianca. Nomi d’altronde già ne circolano da settimane, da Mitt Romney allo stesso John Kasich (il quale pare voglia proporsi come candidato vincente dopo la sua vittoria in Ohio).

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Fig. 1 – Ted Cruz è l’ultima speranza (controvoglia) dell’establishment repubblicano per ostacolare Trump

Se tutto questo fosse confermato, bisognerebbe comunque chiedersi se Cruz accetterà di giocare il ruolo di “utile idiota” dell’establishment. Cosa francamente improbabile. E difatti, nonostante i quotidiani battibecchi con Trump, è stato tra i pochissimi repubblicani ad aver totalmente chiuso alla possibilità di una brokered convention, fornendo così indirettamente un assist al miliardario newyorkese: il quale ha ringraziato, dicendosi aperto ad un’eventuale alleanza con il senatore texano. Certo, un ticket presidenziale tra i due resta al momento improbabile. Ma non impossibile. Si tratta effettivamente di due candidati piuttosto radicali. Ma che coprono comunque elettorati parzialmente differenti: l’ultraconservatorismo tradizionale di tendenza evangelica, Cruz; gli indipendenti e gli elettori meno ideologizzati senza eccessiva connotazione religiosa, Trump.
Il punto sarà allora capire se il GOP possa nel caso effettivamente scegliere di compattarsi dietro a una simile coppia. O se magari non si profili l’ipotesi di una scissione. Il rischio è allora per i repubblicani che possa replicarsi quanto già accaduto loro nel 1912: quando, in polemica con William Taft, Teddy Roosevelt lasciò l’elefantino, corse con il Progressive Party e alle elezioni generali si piazzò secondo dietro il democratico Woodrow Wilson. In tal senso, un’eventuale manovra di palazzo, che silurasse Trump, non è escluso possa creare un malumore profondo nell’elettorato, che potrebbe decretare allora il crollo di un elefantino già in profondissima difficoltà.

SANDERS NON MOLLA – La situazione appare un po’ meglio definita tra i democratici. Ma neanche tanto. Hillary Clinton si colloca prima con 1.681 delegati, Bernie Sanders è invece secondo a quota 937. La forbice non è stretta, per quanto sia ciononostante da rilevare come 467 dei delegati di Clinton siano in realtà superdelegati (quindi non conquistati sul campo tramite voti ma dipendenti dall’establishment del partito). Se dopo le sconfitte subite la settimana scorsa in Illinois e Ohio, il candidato socialista sembrava quasi sull’orlo del collasso, le vittorie di ieri in Idaho e Utah dimostrano una capacità di ripresa non indifferente. Perché alla fine il problema è proprio questo. Salvo avvenimenti clamorosi, ci sono pochi dubbi sul fatto che Hillary riuscirà alla fine a conquistare la nomination democratica. Il punto è tuttavia la sua strutturale incapacità di vincere negli Stati del Nord: un’incapacità che sta restituendo l’immagine di un asinello spaccato e particolarmente scollato da buona parte del voto popolare.

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Fig. 2 – Bernie Sanders continua a sperare ma la distanza con la Clinton sembra difficile da colmare

Non bisogna infine dimenticare come il senatore del Vermont non abbia ancora escluso la possibilità di correre da indipendente. E nel caso lo facesse, potrebbe costituire un serio pericolo per l’ex segretario di Stato in sede di general election. Hillary potrebbe infatti vedersi duramente insidiata a sinistra, mentre le sue possibilità di accattivarsi l’elettorato storico di Sanders sarebbero praticamente vicine allo zero.

Stefano Graziosi

[box type=”shadow” align=”aligncenter” class=”” width=””]Un chicco in più

Il 26 marzo sono previsti tre appuntamenti elettorali tutti democratici. Si voterà in Alaska, Washington e Hawaii.[/box]

Foto: Disney | ABC Television Group

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Stefano Graziosi
Stefano Graziosi

Nato a Roma nel 1990, mi sono laureato in Filosofia politica con una tesi sul pensiero di Leo Strauss. Collaboro con varie testate, occupandomi prevalentemente di politica americana. In particolare, studio le articolazioni ideologiche in seno al Partito Repubblicano statunitense.

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