Le recensioni del Caffè – Sono passati cinque anni dalle proteste di Piazza Tahrir e dalla caduta di Hosni Mubarak, ma l’Egitto resta un Paese fortemente instabile, sia a livello politico che economico. A pagare il prezzo di tanta inquietudine sono milioni di egiziani, costretti a ricorrere a espedienti e lavori saltuari per sopravvivere. Li racconta magistralmente il film Tuk Tuk, primo lungometraggio del regista Romany Saad
VITE PRECARIE – Sono tornati al punto di partenza, gli egiziani. Come nel gioco dell’’oca quando si finisce nella casella peggiore, la 58. Lo scheletro, la morte, che costringe a tornare al punto di partenza. Dopo cinque anni l’immagine dell’Egitto non è molto diversa da quel 23 gennaio 2011, quando a Piazza Tahrir i giovani egiziani hanno chiesto più libertà, più lavoro, più democrazia. Teatro di due colpi di Stato in tre anni, oggi il Cairo è un inferno. Ce ne restituisce uno spaccato Tuk Tuk, un lungometraggio (il primo) di Romany Saad, giovane regista egiziano.
Girato magistralmente, Tuk Tuk è uno sguardo inquietante sulle strade del Cairo attraverso gli occhi di tre ragazzi, Bika, Abdallah e Sharon, tra gli otto e i nove anni di età. Tutto il giorno alla guida dei loro tuk tuk, i risciò a motore. Guadagno medio venti sterline egiziane al giorno. Un pollo costa trentacinque sterline nella Cairo post-rivoluzione.
Una megalopoli con venti milioni di abitanti, invasa da tuk tuk, spesso guidati da ragazzini senza patente proprio come Bika, Abdallah e Sharon. Autisti bambini vessati da litigiosi tassisti, autisti privati e poliziotti corrotti (tantissimi).
Fig. 1 – Due tuk tuk si incrociano brevemente sulla strada per Giza
«Se gli dai 50 sterline chiudono gli occhi. Meglio pagare, se no non mangiamo». Le famiglie di Bika, Abdallah e Sharon e di tantissimi altri bambini del Cairo non possono permettersi di mandare i figli a scuola. Molti sono messi sulla strada, a lavorare alla bene e meglio.
«Senza questo lavoro, senza i tuk tuk, questi bambini venderebbero droga per le strade», dice la madre di Bika, lasciando trapelare un sentimento di orgoglio e vergogna al tempo stesso.
DA MUBARAK A SISI – Più di un quarto dei 90 milioni di egiziani vive sotto la soglia della povertà. Tre bambini su cinque soffrono di malnutrizione. Questo il lascito della rivoluzione, della sequela di eventi succedutisi in Egitto dal 2011: Mubarak viene detronizzato dai giovani di Piazza Tahrir, l’irrefrenabile ondata di proteste, presto il simbolo di tutte le speranze dei giovani arabi.
Nell’estate del 2012 vanno alle urne e scelgono i Fratelli Musulmani. La democrazia islamica con il suo messaggio di liberazione dal potere oppressivo e di lotta alla frustrazione socioeconomica di milioni di egiziani convince. Anche chi islamista non lo è mai stato.
La Fratellanza prova a dare un contenuto pratico all’Islam politico. Fallisce; l’Islam non sembra essere la soluzione ai problemi dell’Egitto.
Fig. 2 – Le grandi manifestazioni popolari di Piazza Tahrir, che portarono alla caduta del Presidente Mubarak nel 2011
Contro Morsi e il suo tentativo di islamizzare la società egiziana si mobilitano milioni di giovani.
Nasce Tamarrod. Vuol dire “rivoluzione” in arabo. In pochissimo tempo il movimento raccoglie ventidue milioni di firme per destituire Morsi. L’establishment islamista, ma anche l’opposizione, è colto di sorpresa. Morsi viene defenestrato nottetempo, destituito dal Capo delle Forze Armate egiziane, il Generale Abdel Fattah el-Sisi.
Finiscono tutti in carcere, Morsi, i capi della Fratellanza e migliaia di simpatizzanti.
Fig. 3 – Un carro armato presidia un ponte del Cairo durante il golpe militare contro il Governo dei Fratelli Musulmani, luglio 2013
In preda alla guerra civile e alla imminente bancarotta, gli egiziani si affidano ancora una volta agli “uomini in divisa”. I militari in Egitto sono l’Istituzione, forti di quel diritto-dovere di garantire al Paese un Governo stabile e di rimuoverlo quando non lo è più. Per trent’anni Mubarak ha governato il Paese, non l’ha guidato. Questo è compito dei militari, dai tempi di Gamal Abdel Nasser, il padre della patria, l’eroe dell’anticolonialismo arabo.
IL POTERE DEI MILITARI – I militari non sono solo i guardiani della nazione, ma anche i proprietari della sua economia. Controllano tutto, dai beni di prima necessità alle infrastrutture, dai trasporti all’industria turistica. Anche la Primavera egiziana è stata dell’Esercito. I militari ne hanno tirato le fila fin dall’inizio.
Hanno approfittato astutamente di Piazza Tahrir per scaricare Mubarak, oramai inaffidabile e con la malsana idea di mettere sul trono il figlio, Gamal, un civile troppo legato a quegli ambienti affaristici e finanziari in aperta competizione con i militari.
Hanno pensato di “comandare senza governare” anche con la Fratellanza, ma non ha funzionato. Loro, i Fratelli, volevano governare davvero. Lo hanno fatto male, legittimando (si fa per dire) un altro colpo di Stato manu militari. Il 3 luglio 2013 Morsi, il primo Presidente democraticamente eletto nella storia dell’Egitto, viene deposto e incarcerato. La parabola dell’Islamismo politico si compie in poco più di un anno al prezzo di 600 morti. Una parabola che raggiunge la sua conclusione il 14 agosto 2013, nella Piazza della Moschea di Rabaa. La “notte buia” dell’Egitto.
Fig. 4 – Abdel Fattah el-Sisi, attuale Presidente dell’Egitto, parla all’Assemblea Generale delle Nazioni Unite a New York, settembre 2014
Piazza Tahrir è stata sconfitta. I militari se ne sono serviti per rovesciare Mubarak, poi si sono serviti della Fratellanza per reprimere Piazza Tahrir, e poi di Tamarrod per eliminare la Fratellanza.
Ma c’è stata una rivoluzione in Egitto? O si è trattato di una restaurazione senza rivoluzione? «Rivoluzione? Siamo diventati tutti disgraziati. Senza nessun beneficio. La polizia estorce più di prima», impreca un anziano signore nel film.
REPRESSIONE E INCERTEZZA – L’Egitto di oggi non è quello di Mubarak. Secondo dati attendibili, la cosiddetta restaurazione è costata al Paese quindicimila persone finite in carcere e millequattrocento morti. I Fratelli Musulmani sono tornati ad essere una “organizzazione terroristica”, come ai tempi di Nasser.
A pagare il prezzo più alto della restaurazione, accanto alla Fratellanza e ai suoi simpatizzanti, sono anche giornalisti, intellettuali, attivisti e blogger. Ridotti al silenzio dai tribunali militari e dalla carcerazioni arbitrarie. Quando va bene.
I privilegi di polizia e militari sono stati rafforzati, lo Stato d’emergenza introdotto da Mubarak è stato esteso, la violenza politica garantita dalla baltagiya (i teppisti di Mubarak chiamati a fare il lavoro sporco) intensificata.
Nell’Egitto di Sisi la repressione del dissenso è assai più dura perché il regime ha molte più falle rispetto al passato. È più spaventato. Dal terrorismo jihadista e dai movimenti islamisti (la Fratellanza e i salafiti di al-Nour).
Fig. 5 – Un tuk tuk parcheggiato presso il cimitero di El Sayeda Nafisa, nella zona sud del Cairo
Ma sono soprattutto i sindacati la spina nel fianco di Sisi, capaci di mobilitare il Paese, di muovere chi ha fame.
«Hanno paura di loro» dice uno dei bambini di Tuk Tuk, imbattendosi con il suo tre ruote in una manifestazione dei sindacati. Sì, il regime ha paura di loro e per questo stringe sulle ONG e sulle organizzazioni giovanili.
Il pugno di ferro dei militari e gli aiuti internazionali (soprattutto dai Paesi del Golfo) non sono bastati e non basteranno a disinnescare la bomba a orologeria socioeconomica dell’Egitto.
Il padre di Abdullah si è indebitato fino al collo per comprare il risciò ai suoi due figli, per sotttrarli alla strada, alla criminalità, alla droga. Povero padre, non capisce che i suoi ragazzi sono ormai parte della vita di quella strada. Tuk Tuk si chiude con i tre ragazzi che fumano droga sull’Imbaba Bridge e sognano a voce alta la loro vita da adulti, al di là del parabrezza dei loro piccoli risciò a motore. Quella da bambini è persa. Nel traffico del Cairo. Città infinita.
Mariangela Matonte
[box type=”shadow” align=”aligncenter” class=”” width=””]Un chicco in più
Romany Saad è un giovane regista egiziano nato al Cairo. Ha iniziato a girare corti nel 2010. Tuk Tuk, il suo primo lungometraggio, è stato presentato alla settimana della critica al Cairo International Film Festival e in concorso al Canadian International Documentary Film Festival.
Tra i cortometraggi girati da Saad, va certamente citato Cold January, crudo spaccato sulla rivoluzione di Piazza Tahrir nel 2011. Il film è visibile gratuitamente sulla pagina YouTube del regista.[/box]