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Spagna al voto: dopo sei mesi (quasi) tutto come prima

In 3 sorsiDomenica 26 giugno la Spagna è andata al voto anticipato per tentare di superare lo stallo creatosi dopo le elezioni del dicembre scorso. Ma i risultati sono stati sostanzialmente uguali. Il Partito popolare di Mariano Rajoy si rafforza significativamente, mentre a Unidos Podemos non riesce il sorpasso a sinistra. Tuttavia nessun partito ha la maggioranza assoluta e incombe lo spettro di un ennesimo ritorno anticipato alle urne in un Paese minacciato dai separatismi e dall’ingovernabilità.

1. I RISULTATI – Domenica 26 giugno i cittadini spagnoli sono stati chiamati alle urne per eleggere il Parlamento, dopo che il 20 dicembre scorso le elezioni avevano consegnato al Paese uno scenario politico frammentato. L’attesa per questo voto era molta, anche nel resto d’Europa, perché la consultazione si teneva ad appena tre giorni dal referendum britannico sulla Brexit. Eppure i risultati sono stati sostanzialmente identici a quelli di dicembre. Il Partito popolare (PP), guidato da Mariano Rajoy, si è confermato primo partito con il 33% dei voti e 137 seggi. Il PP ha visto un non trascurabile aumento di seggi e voti, ma non abbastanza per poter formare un Governo monocolore. Il dato più notevole di queste elezioni è probabilmente il mancato sorpasso a sinistra di Unidos Podemos (21%) sui socialisti del Psoe (22,7%), che i sondaggi e i primi exit polls avevano pronosticato. Delude Ciudadanos – formazione centrista, ma anticasta – che ha racimolato soltanto il 12%.

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Fig. 1- Il leader del Partito popolare e premier spagnolo uscente Mariano Rajoy

2. QUALE GOVERNO? – Di fatto la situazione rimane bloccata. Il premier uscente Mariano Rajoy si rafforza, probabilmente anche grazie all’effetto della Brexit, che ha indubbiamente spinto un numero significativo di elettori a scegliere il volto della stabilità, incarnato dal leader del PP. Tuttavia la soglia dei 176 deputati necessaria per formare il Governo rimane irraggiungibile senza alleanze. E qui viene il problema per i popolari. Perché, complice l’emorragia di voti di Ciudadanos, un Governo di coalizione può essere formato solo con l’accordo (o quantomeno con l’astensione in Parlamento) del Psoe, che si conferma ago della bilancia. Ma è stato proprio il rifiuto del segretario socialista Pedro Sanchez di intraprendere questa strada nelle settimane successive al voto di dicembre ad aver condotto al ritorno alle urne a soli sei mesi dalle scorse elezioni. L’ipotesi di una Grande Coalizione tra popolari e socialisti rimane comunque l’esito più probabile (anche se assolutamente non scontato), magari senza Rajoy alla testa dell’esecutivo. Spingono infatti in questa direzione l’UE, la Confindustria spagnola e la Chiesa cattolica. Remano contro invece la storia e l’ideologia. Le alternative sarebbero vedere nascere un Governo delle sinistre o ritornare alle urne. La prima ipotesi è problematica. Socialisti e Unidos Podemos, infatti, non hanno i numeri per governare da soli e dovrebbero coinvolgere i partiti secessionisti baschi e catalani per formare un esecutivo comunque debole e instabile. Inoltre la contropartita chiesta dai separatisti è l’indizione di referendum per la secessione delle loro piccole patrie, scenario indigesto per il Psoe, visto che l’eventuale perdita della Catalogna e dei Paesi Baschi priverebbe la Spagna delle sue regioni più ricche e sviluppate, penalizzando le zone più povere del Paese iberico, tra le quali l’Andalusia, roccaforte e bacino elettorale dei socialisti. La seconda alternativa è improbabile, visto che quasi certamente neanche un terzo ricorso alle urne cambierebbe significativamente la situazione, con il solo risultato di rimandare l’apparentemente inevitabile compromesso tra popolari e socialisti. In ogni caso il tradizionale bipartitismo spagnolo, che ha caratterizzato l’epoca post-franchista, pur se parzialmente risorto in questa tornata elettorale, è stato quantomeno incrinato dalla crisi economica e sociale e dal rafforzarsi dei separatismi, soprattutto quello catalano (vedi il chicco in più).

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Fig.2 – Il segretario del Psoe Pedro Sanchez

3. LE CONSEGUENZE PER L’EUROPA – Fin dal suo arrivo alla Moncloa alla fine del 2011, Mariano Rajoy ha seguito pedissequamente le istruzioni arrivategli da Bruxelles (e da Berlino), imponendo al proprio Paese tagli e austerity e divenendo uno dei più fedeli alleati europei della Cancelliera tedesca Angela Merkel. Il calo della sua popolarità era dunque praticamente inevitabile e messo in conto da tutti gli osservatori. Tuttavia il risultato del 26 giugno e il relativo rafforzamento di Rajoy sembrano allontanare l’unico scenario che UE e Germania temevano veramente fin dalle scorse elezioni: la formazione di un Governo delle sinistre, magari con il più moderato Psoe in minoranza rispetto a Podemos. Sarebbe stato un esito molto simile a quanto avvenuto nel vicino Portogallo, da alcuni mesi governato da un esecutivo in cui l’estrema sinistra ha un ruolo importante. Sgombriamo subito il campo da equivoci: Podemos non è un movimento antieuropeo, anzi. Tuttavia la formazione guidata dal carismatico Pablo Iglesias sostiene una visione economica sostanzialmente opposta a quella della Commissione europea e della Germania. È vero che probabilmente un Governo Podemos-Psoe alla fine si adeguerebbe ai desiderata di Bruxelles e Berlino, analogamente a quanto fatto da Alexis Tsipras ad Atene. Ma il rischio intravisto da molti in queste elezioni spagnole era (è) quello di assistere alla nascita di un blocco di Governi di estrema sinistra nei Paesi europei del Mediterraneo che tentasse di forzare la Germania a compiere scelte economiche troppo radicali, alimentando lo scetticismo e l’ostilità dell’opinione pubblica e della classe dirigente tedesche nei confronti dei Paesi dell’Europa meridionale. Eventualità che, in mezzo alla tempesta politica provocata dalla Brexit e in un momento cruciale per il futuro dell’Unione europea, i Governi del vecchio continente sarebbero ben felici di risparmiarsi.

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Fig.3- Il leader di Podemos Pablo Iglesias

[box type=”shadow” align=”aligncenter” class=”” width=””]Un chicco in più

La questione dell’indipendentismo, soprattutto di quello catalano, è stato un argomento caldo della campagna elettorale spagnola, almeno quanto l’economia. Unidos Podemos aveva sostenuto l’idea di convocare referendum sull’indipendenza, con particolare riguardo per la questione catalana. Ma gli altri partiti avevano subito preso le distanze da questa posizione. Resta il fatto che, nonostante l’intransigente opposizione dello Stato centrale, in Catalogna i sentimenti indipendentisti restano forti e molto radicati. [/box]

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Davide Lorenzini
Davide Lorenzini

Sono nato nel 1997 a Milano, dove studio Giurisprudenza all’Università degli Studi. Sono appassionato di politica internazionale, sebbene non sia il mio originario campo di studi (ma sto cercando di rimediare), e ho ottenuto il diploma di Affari Europei all’Istituto per gli Studi di Politica Internazionale (ISPI) di Milano. Nel Caffè, al cui progetto ho aderito nel 2016, sono co-coordinatore della sezione Europa, che rimane il mio principale campo di interessi, anche se mi piace spaziare.

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