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USA 2016: quanto conterà il voto degli afroamericani?

Terra di sogni e paradossi. Gli Stati Uniti hanno eletto un afroamericano uomo più potente della Terra, eppure continuano a fare i conti con la ferita del razzismo, come dimostrano i recenti fatti di Dallas. Un’America sanguinante e agitata da vecchi fantasmi che spinge oggi a riflettere, tra l’altro, su quanto il peso demografico degli afroamericani inciderà sull’esito delle presidenziali

QUANTO È GRANDE LA COMUNITÀ AFROAMERICANA NEGLI STATI UNITI? – Secondo le stime effettuate dallo U.S. Census Bureau, il 1 luglio del 2015 i neri d’America erano 46,28 milioni, quasi il 4% in più rispetto al 2012, pari a circa il 14% della popolazione. Sempre in base a quanto rilevato dall’Ufficio di statistica gli afroamericani saranno oltre 49 milioni nel 2020 e 74,5 milioni nel 2060, rispettivamente il 14,7% e il 17,9% del totale della popolazione. Quasi un cittadino su cinque.
Quanto pesa questa componente demografica sul totale dell’elettorato a stelle e strisce? Gli afroamericani che si sono recati alle urne alle presidenziali del 2012, quelle che hanno riconfermato Barack Obama, sono stati 17,8 milioni, 1,7 milioni in più rispetto al 2008 e circa il 14% del totale dei votanti. La partecipazione al voto è stata nel 2012 del 66,2%, in aumento rispetto al 64,7% della precedente tornata elettorale. E se i neri votano sempre di più, i bianchi si tengono sempre più lontani dalle urne: dal 2004 la percentuale è infatti scesa dal 67,2% al 64,1%. Altro dato da non sottovalutare: il 2012 è stata la prima volta nella storia in cui la percentuale di votanti tra i cittadini di colore ha superato quella dei bianchi, 66% contro 64,1%.
Questi dati permettono quindi di assodare una semplice evidenza: negli Stati Uniti gli afroamericani (e più in generale le minoranze come quelle degli ispanici e degli asiatici) sono sempre di più e sono destinati ad aumentare, mentre i bianchi sono sempre meno. Con conseguenze più che significative sulla mappa elettorale statunitense.

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Fig. 1 – Barack Obama, il primo afroamericano alla Casa Bianca

I VOTI DELLE MINORANZE: UN PROBLEMA ARITMETICO PER IL GOP – In generale, a partire dall’introduzione nel 1964 del Civil Rights Act a opera di Lyndon Johnson, che ha sancito ufficialmente la fine della discriminazione razziale nelle strutture pubbliche, l’elettorato afroamericano ha votato come un blocco monolitico per i democratici. Questa tendenza si è rafforzata almeno negli ultimi otto anni, innanzitutto a causa del progressivo arroccamento del GOP su posizioni nettamente avverse alle esigenze di queste comunità. «La commissione interna al Partito repubblicano che ha analizzato le ragioni della sconfitta di Mitt Romney nel 2012 ha identificato, tra gli altri, proprio questo problema, ossia che le politiche proposte dal GOP non sembravano in grado di intercettare il segmento degli afroamericani, degli ispanici e degli asiatici. Difficile che il Partito repubblicano riesca ad affermarsi come partito di governo se non risolve questo problema», commenta Davide Borsani, Associate Research Fellow in Security and Strategic Studies presso l’ISPI.
Altro driver che ha spinto gli afroamericani verso il partito democratico è rappresentato dall’ascesa politica di Barack Obama, che la comunità afroamericana continua a vivere come l’incarnazione del successo di decenni di lotte per la conquista dei diritti civili. Risultato: sia nel 2008, sia nel 2012 oltre il 90% del cosiddetto Black Vote ha scelto Obama. Già nel 2012, quando gli elettori bianchi erano circa il 72% del totale, l’attuale Presidente è stato in grado di vincere le elezioni pur lasciando allo sfidante Mitt Romney una vittoria del 59% su questa porzione di elettorato. E per il 2016 si prevede che i bianchi saranno calati di uno o due ulteriori punti percentuali. Per i repubblicani, quindi, è pura e semplice matematica. Ripercorrendo i passaggi chiave del saggio 2016 and beyond del sondaggista repubblicano Whit Ayres, dalle colonne del Washington Post il reporter Dan Baltz ha illustrato come per vincere le elezioni i repubblicani devono incrementare il supporto tra gli elettori bianchi e riuscire a mobilitare in loro favore almeno parte delle minoranze. Se a novembre il candidato repubblicano non riuscisse ad attrarre più voti di Romney tra i non bianchi (17%), per vincere dovrebbe affermarsi tra i bianchi con una percentuale pari ad almeno il 65%, un livello che negli ultimi decenni è stato raggiunto solo da Ronald Reagan nel 1984. Vista da un’altra prospettiva: se il candidato repubblicano riuscisse a raccogliere tra i bianchi lo stesso livello di consensi di Romney (59%), per vincere dovrebbe guadagnare almeno il 30% dei voti delle minoranze. Una sfida che appare decisamente impossibile per il sempre più probabile candidato repubblicano Donald Trump: secondo un recente sondaggio Gallup l’88% dei cittadini afroamericani ha un’opinione negativa del magnate newyorkese.
Per quale strategia opterà allora Donald Trump, recuperare consensi tra le fasce elettorali a lui al momento avverse, oppure cercare di consolidare il proprio presidio tra quelle che ha già conquistato? «Se ora Trump modificasse il suo messaggio, di certo tradirebbe la propria identità, che fino a questo momento è stata anche la sua più grande spinta – commenta Borsani – Del resto due sono le opzioni: tradire la propria identità e quindi perdere la porzione di elettorato più “radicale”, oppure restare all’estremità di questo spettro politico e accettare di perdere il centro. Penso comunque che Trump continuerà a parlare ai bianchi, soprattutto a quelli con basso livello di istruzione».

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Fig.2 – Donald Trump e il reverendo Darrell Scott al termine dell’incontro di novembre a New York con alcuni importanti religiosi afroamericani

BLACK VOTE: LA SCOMMESSA PERSA DI BERNIE SANDERS – Musica totalmente diversa in casa democratica, dove Hillary Clinton gode di un grande sostegno tra le comunità afroamericane. Un sostegno che ha sbaragliato anche la fiera battaglia condotta da Bernie Sanders nel corso delle primarie. Perché quest’idillio? Per tre ragioni essenziali. Innanzitutto al contrario di Sanders, che ne ha preso immediatamente le distanze, Clinton si è da subito presentata come l’erede politica di Obama e dei suoi otto anni di Presidenza. Da non sottovalutare il dato che Clinton stessa ha fatto parte della prima Amministrazione Obama con il ruolo di Segretario di Stato.
In secondo luogo Clinton può beneficiare dell’eredità politica del marito Bill (definito «il primo Presidente nero degli Stati Uniti»), che lei pure ha contribuito a costruire con il ruolo di First Lady.
Terzo e ultimo punto: «Larga parte della comunità afroamericana è incline a incarnare una visione del mondo tendenzialmente tradizionalista, soprattutto in senso culturale e religioso, che dunque si sposa poco con la posizione più marcatamente “liberal” di Bernie Sanders, mentre si sente più a suo agio con il “centrismo” di Clinton”», osserva Borsani.

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Fig. 3 – Nell’ottobre 2015 ad Atlanta si tenne l’iniziativa degli afroamericani a sostegno di Hillary Clinton

IL BLACK VOTE NEGLI SWING STATES – Per comprendere a pieno la rilevanza di questo trend demografico sull’esito delle presidenziali del prossimo novembre è utile tenere in considerazione anche la distribuzione della popolazione afroamericana all’interno dei singoli Stati. In particolare all’interno degli swing States, gli Stati in bilico, ossia quelli dove non vi è un radicato e assodato consenso per un partito o per l’altro e il cui orientamento potrebbe risultare cruciale per l’esito delle elezioni. Secondo una ricerca condotta dal magazine online Politico.com è assai probabile che la notte dell’8 novembre i principali “terreni di battaglia” per Clinton e Trump saranno Colorado, Florida, Iowa, Michigan, Nevada, New Hampshire, North Carolina, Ohio, Pennsylvania, Virginia e Wisconsin. Una delle dinamiche più significative evidenziate dagli analisti è proprio la composizione demografica di alcuni di questi Stati: quelli del Sud, dove ampia è la porzione di elettori non bianchi (esempio: North Carolina e Virginia, dove circa un elettore su cinque è afroamericano) e dove c’è una maggior diversificazione razziale sono dati a Hillary Clinton, mentre quelli in cui rimane alta la concentrazione di bianchi potrebbero essere terreno di conquista per Donald Trump. Non dimentichiamo poi che la Florida – che assegna ben 29 grandi elettori e dove quasi il 17% della popolazione è costituita da afroamericani – è già stata decisiva nel 2000 (in quel caso in favore del candidato repubblicano George W. Bush), mentre è stata terreno di conquista di Obama sia nel 2008, sia nel 2012. «In Alabama, Mississippi, Louisiana, Georgia, Florida e le due Caroline l’orientamento delle comunità afroamericane potrà sicuramente pesare sugli esiti delle elezioni», commenta Borsani.

Federica Casarsa

[box type=”shadow” align=”aligncenter” class=”” width=””]Un chicco in più

Il meccanismo elettorale USA assegna i voti non su base nazionale, ma statale: a eleggere il Presidente, cioè, non sono direttamente i cittadini, ma i cosiddetti grandi elettori, ripartiti in numero diverso tra i cinquantuno Stati a seconda della popolazione. Il principio del cosiddetto winner-takes-all fa sì che il candidato che raggiunge la maggioranza dei voti in uno Stato ne conquista tutti i grandi elettori. Ciò che è importante, in definitiva, è assicurarsi la soglia minima di grandi elettori necessaria a prevalere sullo sfidante. Una curiosità: alle elezioni del 2000 che opposero George W. Bush e Al Gore fu il secondo a prevalere in termini di voto popolare. Bush conquistò però un maggior numero di grandi elettori e vinse la Presidenza.[/box]

 

Foto di copertina di Photographing Travis pubblicata con licenza Attribution License

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Federica Casarsa
Federica Casarsa

Mi sono laureata in Politiche Europee e Internazionali all’Università Cattolica di Milano con una tesi sulla guerra civile siriana. Dopo un master in Informazione Multimediale e Giornalismo Economico presso la Business School de “Il Sole 24 Ore” ho maturato alcune esperienze nel settore della comunicazione economico-finanziaria. Tra i miei interessi il Medio Oriente, la politica Usa e la cultura britannica.

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