In 3 sorsi – Con la fine della Guerra fredda gli Stati Uniti hanno individuato nella Cina il prossimo grande rivale per la propria potenza egemonica in Asia-Pacifico. Nonostante in passato i Presidenti repubblicani abbiano tentato di stabilire una partnership strategica con Pechino, oggi gli esponenti del Grand Old Party criticano apertamente il Governo cinese e, con Trump come candidato alla presidenza, i toni si sono riaccesi. Tuttavia, il Partito Repubblicano appare spaccato in due: al suo interno si affrontano infatti due visioni di politica estera totalmente agli antipodi
1. LA CINA DA ALLEATA A RIVALE – Durante la Guerra fredda è proprio con le presidenze repubblicane di Nixon e Reagan che i rapporti tra Stati Uniti e Cina diventano più solidi. L’avvicinamento dei due Paesi aveva inizialmente come obbiettivo il contenimento dell’espansionismo sovietico in Asia. Washington incoraggiava la progressiva crescita e apertura dell’economia cinese al libero mercato, in modo che si potesse scatenare un processo di democratizzazione all’interno del Paese. Tale processo avrebbe potuto consentire a Pechino di entrare, nel lungo periodo, all’interno dell’ordine liberale internazionale.
Con la fine della Guerra fredda e i fatti di piazza Tienanmen, ha avuto però inizio la disillusione verso il sogno americano di una Cina democratica. Per tutti gli anni Novanta i temi della tutela dei diritti umani e della democrazia in Cina sono diventati centrali nei rapporti tra Washington e Pechino. Inoltre, con la fine del pericolo sovietico, la crescente potenza economica e militare cinese iniziava a preoccupare gli Stati Uniti, che vedevano minacciato il proprio potere egemonico in Asia.
Successivamente, a seguito degli attacchi dell’11 settembre, la minaccia posta dal fondamentalismo islamico distolse però l’attenzione di Washington dalla Cina. Sebbene iniziasse a prefigurarsi una strategia chiamata di “contenimento attivo”, promossa dall’ala neoconservatrice del Partito Repubblicano, il Presidente Bush si mostrò cauto nelle relazioni con Pechino, anche per via dell’appoggio cinese alla lotta al terrorismo.
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Fig. 1 – Brindisi tra Richard Nixon e Zhou Enlai in occasione della visita del Presidente USA in Cina nel 1972
2. LA SPACCATURA ALL’INTERNO DEL PARTITO – Oggi, in materia di politica estera, il Partito Repubblicano risulta però diviso tra due correnti di pensiero ben distinte. Questa spaccatura è una diretta conseguenza dell’attuale insofferenza dell’opinione pubblica americana nei confronti dell’interventismo in politica estera, soprattutto tra la base repubblicana. Il crescente sentimento isolazionista tra gli elettori repubblicani ha infatti giocato un ruolo di primo piano nella vittoria alle primarie di Donald Trump su Marco Rubio e Ted Cruz, i quali si mostravano più vicini alle posizioni dell’élite del Partito. La classe dirigente del Grand Old Party è ancora largamente influenzata dal pensiero neocon che ha caratterizzato la politica estera di George W. Bush. Basterebbe dare uno sguardo al programma del Partito Repubblicano per accorgersi come la visione di politica estera dell’establishment del Partito promuova ancora l’interventismo tipico della strategia “primatista” neocon.
All’interno del manifesto programmatico repubblicano si può notare come nei confronti della Cina rimangano evidenti i temi del mancato rispetto dei diritti umani da parte di Pechino e dell’inasprimento dell’autoritarismo all’interno del governo cinese, con riferimento anche alla questione dell’autonomia di Hong Kong. Viene rimarcata inoltre la strategia del “contenimento attivo”, specialmente nel Mar Cinese Meridionale, insieme ad un richiamo al rafforzamento delle alleanze con i Paesi alleati nell’area, in particolar modo esplicitando l’intenzione di difendere l’isola di Taiwan nel caso di attacco dalla Cina continentale.
Fig. 2 – Un’immagine delle primarie repubblicane di quest’anno: dibattito tra Marco Rubio, Donald Trump e Ted Cruz in Texas
3. LA POLITICA ESTERA DI TRUMP – Le posizioni di Trump sono però, in alcuni casi, totalmente opposte ad esse. Innanzitutto, Trump possiede una concezione di politica estera realista e pragmatica e, soprattutto, isolazionista. Il candidato alla Casa Bianca auspica il ritiro degli Stati Uniti da tutti gli impegni internazionali e una rinegoziazione delle alleanze, sia con la NATO che con i partner asiatici. Per Trump gli Stati Uniti devono lasciare ai Paesi alleati l’onere militare ed economico della propria difesa e, a tal proposito, si è detto ampiamente favorevole al riarmo, anche nucleare, del Giappone e della Corea del Sud. Inoltre, non intende lasciare che l’America entri nelle questioni di Taiwan e del Mar Cinese Meridionale, mostrandosi così in totale disaccordo con l’attuale posizione dell’establishment repubblicano.
Anche in materia economica emergono alcune divergenze sostanziali, poiché il candidato repubblicano si è espresso in maniera molto critica nei confronti dei trattati commerciali con la Cina, accusati di essere svantaggiosi per gli Stati Uniti. Trump sostiene infatti l’imposizione di pesanti tariffe nel commercio con il Paese asiatico, arrivando persino ad auspicare un ritorno a misure protezioniste.
Gli unici punti che il programma del Partito e Trump condividono risiede nell’accusa alla Cina di rubare le proprietà intellettuali e i brevetti americani, di manipolare la propria moneta e di essere la causa della chiusura di molte aziende americane, con la conseguente perdita di milioni di posti di lavoro. Anche durante la scorsa corsa alla presidenza americana, il precedente candidato repubblicano Mitt Romney ha posto questi temi al centro della propria campagna elettorale.
Fig. 3 – Donald Trump a New York durante un momento della sua campagna elettorale.
Con la vittoria alle primarie di Trump è risultato quindi visibile come la base repubblicana appoggi largamente le posizioni isolazioniste e protezioniste espresse dal magnate di New York. Questa tendenza si sta gradualmente imponendo all’interno del Partito che risulta, come si è visto, spaccato al suo interno. Anche se con molta probabilità Trump non verrà eletto alla Casa Bianca, nel caso di una futura presidenza repubblicana questa componente del Partito potrà imporsi e influenzarne la politica estera, il che avrà dirette conseguenze sulle delicate relazioni con la Cina e sullo stesso potere egemonico americano.
Daniele Speciale
[box type=”shadow” align=”aligncenter” class=”” width=””]Un chicco in piĂąÂ
Per gli esperti di politica internazionale, la Cina rappresenta la sfida piĂą importante che gli Stati Uniti dovranno afforntare nel corso del XXI secolo. Il tema della “China’s rise”, ovvero dell’ascesa della Cina, infiamma attualmente il dibattito accademico oltre che politico in America e non solo. Per avere un’idea della sfida che dovranno affrontare gli Stati Uniti, basti pensare che l’ultimo grande rivale dell’America, l’Unione Sovietica, al massimo della sua grandezza possedeva una potenza relativa corrispondente al 44% del PIL americano. Per la Cina, invece, le cifre parlano di circa metĂ del PIL statunitense nel solo 2010, con una percentuale in netto aumento. [/box]
Foto di copertina di Michael Vadon Rilasciata su Flickr con licenza Attribution-ShareAlike License