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I rischi dietro la nomina di David Friedman

Caffe’ Americano – David Friedman è stato nominato dal Presidente designato Trump futuro ambasciatore USA in Israele. Le sue posizioni forti contro la two-state solution e in generale il dialogo con i Palestinesi potrebbero complicare di molto ogni processo di pace

UNA NOMINA CONTROVERSA – Il 15 dicembre scorso il presidente designato USA Donald Trump ha indicato la sua intenzione di nominare David Friedman ambasciatore USA in Israele. Avvocato esperto in bancarotte, la sua figura è controversa perchĂ© strettamente legata all’ultradestra israeliana. Sono note le sue posizioni contro la two-state solution – cioè la possibilitĂ  di arrivare a uno stato Palestinese accanto a uno Israeliano – e a favore dell’estensione senza limiti delle colonie in Cisgiordania, che a suo parere Israele dovrebbe annettere direttamente. Con la sua (ormai probabile) nomina si avvicina la possibilitĂ  che gli USA decidano di spostare la propria ambasciata da Tel Aviv a Gerusalemme, di fatto riconoscendo la pretesa israeliana sulla cittĂ .

LE AMBASCIATE A TEL AVIV – E’ bene chiarire un punto al riguardo. Tel Aviv è stata la capitale di Israele solo per un breve periodo (1948-1949) anche se per altri decenni la maggior parte delle funzioni governative lì è rimasta. Nel 1980 poi la Knesset, il Parlamento israeliano, ha votato una “legge fondamentale” che riconosceva anche formalmente Gerusalemme come “unica e indivisibile capitale di Israele”. La comunitĂ  internazionale non ha però mai riconosciuto tale legge, arrivando anche (risoluzione 478 delle Nazioni Unite, sempre del 1980) a dichiarare tale legge “nulla e non valida”, definendola una violazione del diritto internazionale e un ostacolo sulla via della pace. Il motivo è semplice: è internazionalmente accettato che lo status di Gerusalemme possa essere definito solo in seguito a negoziato con i Palestinesi, i quali vorrebbero anch’essi avere Gerusalemme (o almeno la parte Est) come propria Capitale. Per questo motivo sostanzialmente tutti i Paesi con relazioni diplomatiche con Israele mantengono la propria ambasciata a Tel Aviv, così da non legittimare la scelta israeliana.

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Fig. 1 – Immagine dall’alto della cittĂ  di Gerusalemme

LA POSIZIONE USA – Anche gli USA hanno finora seguito tale consuetudine. Tuttavia nel 1995 il Congresso ha passato il cosiddetto “Jerusalem Embassy Act” che dava indicazione di spostare l’ambasciata USA a Gerusalemme. I Presidenti Bill Clinton, George W. Bush e Barack Obama tuttavia hanno sempre bloccato l’attuazione di tale indirizzo tramite veto presidenziale, considerando un tale documento solo indicativo e non vincolante (per gli aspetti di politica estera infatti il Presidente ha autoritĂ  sopra il Congresso a meno che il suo veto non venga cancellato da una forte maggioranza). Rimane però da vedere se tale sarĂ  anche la linea del nuovo presidente Trump e la nomina di Friedman suggerisce la possibilitĂ  reale di una revisione di tale politica presidenziale. Ora l’ambasciata USA potrebbe davvero spostarsi.

QUALI CONSEGUENZE? – Va detto che tale evento non è inevitabile. I consiglieri del Presidente potrebbero comunque convincerlo della pericolositĂ  diplomatica di una tale mossa e eventuali dichiarazioni dello stesso Friedman potrebbero essere smentite dalla nuova Amministrazione. Qui però proviamo a capire cosa significherebbe invece se i suggerimenti di Friedman fossero davvero seguiti, partendo proprio dallo spostamento dell’ambasciata. Esso rappresenterebbe il riconoscimento de facto della posizione israeliana di Gerusalemme come capitale, senza bisogno di un negoziato con i Palestinesi. Questo ridurrebbe notevolmente lo spazio negoziale. Se Gerusalemme capitale infatti è stata finora vista come un punto da negoziare, esso non lo sarebbe piĂą, indebolendo la posizione palestinese in eventuali futuri negoziati: come negoziare qualcosa che tutti danno giĂ  per deciso? Anche piĂą radicale l’eventuale esplicito riconoscimento della definizione “unica e indivisibile”. Se diventa unica e indivisibile, la possibilitĂ  di avere una capitale condivisa o divisa (in qualsiasi modo) tra Israele e Palestina viene cancellata. Anche qui, significa ridurre o eliminare gli spazi negoziali in maniera considerevole. Certamente pochi Paesi seguirebbero gli USA in questo, ma il peso internazionale di Washington è innegabile e così anche il fatto che altri potrebbero seguire l’esempio potendo giustificarsi con “gli Americani l’hanno fatto per primi”.

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Fig. 2 – Un beduino cammina nel suo campo nell’area E1, il 9 Dicembre 2012, nel territorio israeliano di Maale Adumimin del West Bank

LE COLONIE – Questo discorso si lega poi all’altra forte posizione di Friedman: il rifiuto della two-state solution, il suggerimento di annettere formalmente tutta la Cisgiordania e di dare carta bianca all’espansione delle colonie. Intendiamoci: di fronte ai notevoli problemi negoziali per realizzare concretamente due stati (Israeliano e Palestinese) vicini, la one-state solution – ovvero la possibilitĂ  di un solo stato dove vivano Israeliani e Palestinesi insieme – non è da scartare a priori. Dividere Gerusalemme vista l’attuale localizzazione dei quartieri sembra oltremodo complesso (come descritto anche da Paola Caridi nel suo “Gerusalemme senza Dio”) e lo stesso varrebbe per lo spostamento di numerose colonie ormai troppo grandi. Ma una soluzione a singolo stato funzionerebbe solo con adeguate leggi e principi che garantiscano ai Palestinesi diritti e rappresentativitĂ  adeguati (così come agli Israeliani ovviamente), altrimenti si rischierebbe un’altra situazione di disparitĂ  insostenibile. E se da un lato i Palestinesi stessi sono spesso contrari a tale soluzione, dall’altra molti Israeliani vedono come pericoloso per il proprio futuro un tale stato così costituito.

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Fig. 3 – Contestatori Palestinesi partecipano ad una protesta tenuta in supporto di “Jerusalem Intifada”, dopo la chiamata del Movimento Jihadista Islamico, nella cittĂ  di Gaza

IL RISCHIO FUTURO – Solo che Friedman è anche favorevole a un aumento indiscriminato delle colonie, che, in molti casi, prendono terra ai villaggi palestinesi, spesso a forza tramite vari espedienti legislativi (uno molto usato è quello di dichiarare un terreno zona di esercitazioni militari; una volta espropriata la terra viene poi venduta a gruppi che rivendono ai coloni; questo non è però il solo mezzo). Un’approvazione anche implicita di tale politica renderebbe il governo israeliano fortemente incoraggiato a proseguire su questa linea, ma senza troppe necessitĂ  di far partire in parallelo anche un processo negoziale. In altre parole, sarebbe una giustificazione per un rafforzamento dell’attuale politica – cosa che però sta costituendo una bomba ad orologeria che prima o poi esploderĂ  (in parte si è giĂ  visto negli ultimi due anni con la cosiddetta “Intifada dei coltelli”): se gli USA infatti approvano formalmente una tale politica tramite Friedman, ai palestinesi, soprattutto i giovani, sembrerĂ  assolutamente inutile qualunque linea negoziale (un pensiero molto diffuso giĂ  ora…) e si darĂ  forza agli estremisti e alla lotta armata. Non esistono giustificazioni per chi compie atti terroristici, ma c’è da chiedersi se non sia possibile agire prima diversamente per evitare che si arrivi a quel punto.

Lorenzo Nannetti

[box type=”shadow” align=”aligncenter” class=”” width=””]Un chicco in piĂą

I rapporti USA-Israele durante la Presidenza Obama sono stati particolarmente tesi a causa di divergenze su numerosi dossier, principalmente l’accordo nucleare con l’Iran e appunto lo stop ai negoziati con i Palestinesi. Tali tensioni avevano anche portato a uno stallo temporaneo sul memorandum USA-Israele circa le future forniture belliche, forse l’arma diplomatica piĂą forte che Washington ha nei confronti dell’alleato. La Presidenza Trump potrebbe invece cambiare gli equilibri e il premier Israeliano Benjamin Netanyahu si aspetta certamente posizioni piĂą concilianti nei dossier di suo interesse. Da un lato la nomina di Friedman potrebbe essere vista in quest’ottica, anche se “Bibi” non dovrĂ  sottovalutare il fatto che non tutti i consiglieri di Trump hanno le medesime idee. [/box]

Foto di copertina di Kristoffer Trolle Rilasciata su Flickr con licenza Attribution License

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Lorenzo Nannetti
Lorenzo Nannetti

Nato a Bologna nel 1979, appassionato di storia militare e wargames fin da bambino, scrivo di Medio Oriente, Migrazioni, NATO, Affari Militari e Sicurezza Energetica per il Caffè Geopolitico, dove sono Senior Analyst e Responsabile Scientifico, cercando di spiegare che non si tratta solo di giocare con i soldatini. E dire che mi interesso pure di risoluzione dei conflitti… Per questo ho collaborato per oltre 6 anni con Wikistrat, network di analisti internazionali impegnato a svolgere simulazioni di geopolitica e relazioni internazionali per governi esteri, nella speranza prima o poi imparino a gestire meglio quello che succede nel mondo. Ora lo faccio anche col Caffè dove, oltre ai miei articoli, curo attività di formazione, conferenze e workshop su questi stessi temi.

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