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Si può parlare di ritorno della pirateria marittima in Somalia?

Dal 2012, anno dell’ultimo sequestro andato a buon fine, la pirateria di fronte alle coste della Somalia torna tema d’attualità. Le diverse cause che contraddistinguono il fenomeno fanno sì che possa essere un’ulteriore sfida per il Paese e per la comunità internazionale

GLI ANNI BUI DELLA PIRATERIA SOMALA – Si riaccende l’attenzione della comunità internazionale sulla questione della pirateria marittima a largo della costa più estesa del continente africano – pari a 3.300 km – cioè quella della Somalia. Tale problematica era stata archiviata, forse troppo velocemente, con la certezza che il fenomeno fosse stato completamente debellato. Questa interpretazione faceva leva sulle statistiche della pirateria marittima che rimandava al 2012 l’ultimo caso di sequestro di una nave con il relativo equipaggio. Infatti, tra il 2013 e il 2016, secondo i dati forniti da EU NAVFOR Somalia, gli attacchi perpetrati dai pirati somali sono stati complessivamente dieci, tutti sventati in virtù dell’ingente pattugliamento da parte delle missioni marittime internazionali e della presenza a bordo delle navi mercantili di team armati. Nei primi mesi del 2017, invece, gli episodi di pirateria sono aumentati vertiginosamente: tra marzo e aprile sono stati registrati sette attacchi di cui tre hanno portato al sequestro sia dell’imbarcazione che dell’equipaggio.

I TRE SEQUESTRI – Il primo atto di pirateria è stato compiuto il 15 marzo nei confronti della MT Aris 13, una nave cisterna con otto membri dell’equipaggio di nazionalità singalese che sono rimasti sotto il controllo dei pirati per quattro giorni nella città costiera di Alula in Puntland. Il 19 marzo sono stati rilasciati insieme all’imbarcazione senza il pagamento del riscatto grazie soprattutto alle negoziazioni intraprese dalla Puntland Maritime Police Force (PMPF), le autorità somale locali e gli anziani del clan della regione dello Xebo. Il secondo caso di sequestro è avvenuto il 24 marzo quando, lasciato l’equipaggio di bordo – 10 marinai yemeniti – presso il porto di Ely, i pirati hanno preso il controllo di un’imbarcazione usata per la pesca; il natante è stato poi rilasciato tre giorni dopo sull’isola di Socotra e anche in questo caso nessun pagamento sembra essere stato effettuato. Il 1 aprile è toccato all’imbarcazione Al Kausar – che trasportava grano e zucchero – e agli undici indiani a bordo che per dieci giorni sono stati trattenuti contro la loro volontà nel porto della città di Obbia; tra l’11 e il 12 aprile, grazie all’intervento della guardia costiera dello stato del Galmudug, sono stati liberati mentre tre pirati sono stati arrestati.

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Fig. 1 – La moglie di un marinaio cingalese dell’MT Aris 13 visibilmente commossa 

GLI ALTRI ATTACCHI – A questi episodi vanno aggiunti gli attacchi che fortunatamente non hanno comportato nessuna conseguenza per la sicurezza dei marinai. Tra questi si annovera il caso della porta rinfusa OS 35, nave battente bandiera di Tuvalu, che nella notte tra l’8 e il 9 aprile è stata abbordata da un gruppo di pirati; questi però hanno dovuto abbandonare la nave sia per l’impossibilità di rapire l’equipaggio, rifugiatosi nella cittadella, il luogo più sicuro della nave, sia per la presenza nelle vicinanze di due navi militari, una indiana e l’altra cinese, che hanno inviato in soccorso rispettivamente un elicottero e un boarding team. Gli assetti navali cinesi hanno anche sventato un successivo attacco dei predoni nei confronti della petroliera Alheera, assalita il 16 aprile nelle acque del Golfo di Aden – dove secondo fonti somale sarebbero stati uccisi due pirati e sei sarebbero riusciti a scappare – e hanno consegnato alle autorità del Puntland tre pirati catturati dopo l’assalto alla porta rinfusa OS 35.

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Fig. 2 – Pirati somali che si preparano prima di prendere il largo

La ripresa dell’attività piratesca è motivata da diversi fattori legati tra loro. Il primo motivo è dato dalla fragile condizione di sicurezza che si vive in Puntland e nel Galmudug, i principali territori dove i pirati hanno le loro basi.

LA SITUAZIONE IN PUNTLAND – Per quanto concerne la regione semi autonoma che si trova a nord est del Corno d’Africa, questa sta vivendo un periodo d’instabilità interna; infatti, il Presidente del Puntland, Abdiweli Mohamed Ali deve fare i conti con la presenza sul proprio territorio dei militanti dello Stato Islamico e di Al Shabaab che puntano, con attentati e omicidi mirati, a destabilizzare l’autorità regionale e a reclutare giovani inoccupati per la propria causa. Il bilancio in rosso del 2016 della regione autonoma unito all’emissione di banconote false da parte del governo di Garoe, ha causato, negli ultimi mesi dello scorso anno, una dura reazione tra le file del personale di sicurezza del Puntland – comparto intelligence, esercito e guardia costiera – che non ricevendo i propri stipendi da mesi hanno dato il via a vere proprie proteste e in alcuni casi ad ammutinamenti.

LO STATO DEL GALMUDUG – Anche lo stato federale del Galmudug, nonostante l’elezione avvenuta il 3 maggio del nuovo Presidente statale Ahmed Du’alle Geelle Haaf, è nel bel mezzo di una fase delicata sotto il profilo della sicurezza interna che si contraddistingue per i seguenti episodi: i duri scontri armati tra clan hanno provocato negli ultimi giorni almeno sei morti e nove feriti nella provincia di Galgadug. Sono intanto riprese le trattative per la riconciliazione tra l’amministrazione del Galmudug e il gruppo sufi Ahlu Sunna Wal Jama (ASWJ) che dal 2014, dopo essere stato escluso per divergenze politiche dalla formazione dello stato federale, ha imbracciato le armi e attualmente controlla il capoluogo del Galmudug, Dusa Mareb. I problemi interni di questi gruppi paralleli agevolano le attività dei pirati che non subiscono pressioni dirette sulla terra ferma e possono gestire i loro traffici quasi liberamente.

LA PESCA ILLEGALE  E LE LICENZE STATALI – La seconda motivazione che ha nuovamente invogliato gli abitanti dei villaggi costieri alla pirateria, è stata la massiccia presenza dei pescherecci stranieri nelle acque territoriali somale e il conseguente depauperamento delle risorse ittiche, vitali per la sussistenza delle medesime comunità costiere. Infatti, pur essendo in vigore la normativa federale che vieta ai pescherecci stranieri di utilizzare il metodo della pesca a strascico entro le quindici miglia marine delle acque somale, negli ultimi tempi la presenza di queste imbarcazioni è aumentata.

In alcuni casi, l’attività è avvallata dagli Stati federali come il Puntland che per motivi economici vende le licenze di pesca; così è successo con delle compagnie cinesi affiliate alla China Civil Engineering and Construction Company (CCECC) – la società impegnata nella costruzione dell’aeroporto di Bosaso – che nel novembre 2016 per dieci milioni di dollari si sono aggiudicate il permesso di pescare all’interno delle acque del Puntland. Nel febbraio 2017, inoltre, grazie ad una fuga interna di notizie al Ministero della Pesca del Puntland, è emersa una trattativa tra l’autorità regionale competente e alcune aziende del ramo ittico provenienti dalla Tailandia e dalla Corea del Sud per la compravendita di licenze di pesca. Conseguentemente, ciò ha creato forti malumori tra i pescatori locali già vessati dalle limitazioni statali poste nel settembre 2016 al mercato delle aragoste, uno dei principali prodotti del commercio ittico del Puntland.

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Fig. 3 – Pescatori somali intenti a prendere il mare

LE COMPAGNIE MARITTIME – Oltre alla pesca clandestina e alla situazione regionale incerta, la recrudescenza del pericolo piratesco sarebbe anche da imputare ad un abbassamento dell’attenzione da parte delle compagnie marittime; infatti dalle dinamiche degli ultimi attacchi le misure previste per evitare l’abbordaggio non sarebbero state applicate scrupolosamente dalle navi mercantili ed è proprio in quest’ottica che l’International Maritime Bureau, nel suo report di aprile, invita il naviglio marittimo a seguire con più attenzione le Best Management Practices; inoltre sembrerebbe che i nuclei privati di protezione a bordo delle navi mercantili siano stati ridotti, se non eliminati, visti gli alti costi di gestione non più giustificabili data la mancanza, fino a due mesi fa, di un pericolo tangibile.

LE MISSIONI NAVALI – Anche i dispositivi marittimi multinazionali, rappresentanti della comunità internazionale, avrebbero archiviato troppo velocemente la questione pirateria nel Corno d’Africa; in questo senso la chiusura della missione NATO Ocean Shield avvenuta il 15 dicembre 2016, è il perfetto esempio di quanto sopra enunciato e, ad oggi, il numero ormai limitato di assetti navali, specialmente a sud dell’IRTC, il corridoio marittimo di sicurezza utilizzato da qualsiasi imbarcazione transiti da/per Bab El-Mandeb, pesa notevolmente sull’effettiva azione di protezione marittima internazionale.

LA MOSSA DELL’UE – Per cercare di ovviare a tale situazione, l’8 maggio, si è tenuto un incontro tra tutte le componenti delle missioni UE operanti in Somalia – in primis l’ambasciatore dell’Unione Europea in Somalia, Veronique Lorenzo – e il Primo Ministro somalo Hasan Ali Khaire sulla nave spagnola ESPS Galicia, sede di comando della missione Atalanta dell’Unione Europea. Durante il meeting, le parti si sono aggiornate con uno scambio d’informazioni circa gli ultimi eventi pirateschi e hanno concordato una maggior cooperazione allo scopo di evitare sprechi in termini di mezzi, uomini e risorse.

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Fig. 4 – Un assetto navale appartenente alla missione EU NAVFOR Somalia in pattugliamento

In conclusione, le dinamiche che si celano dietro al fenomeno della pirateria marittima non sono di facile e immediata risoluzione però la comunità internazionale di concerto con il Governo Federale somalo e i principali Stati come il Puntland e il Galmudug, devono impegnarsi per offrire alla popolazione, attanagliata dalla grave carestia, una duratura e tangibile alternativa alla pirateria, con un occhio di riguardo per i giovani.

Giulio Giomi

[box type=”shadow” align=”aligncenter” class=”” width=””]Un chicco in più. Con la fine del mandato NATO per la missione Ocea Shield, le missioni multinazionali rimaste ad operare nell’area sono la missione EUNAVFOR ATALANTA dell’Unione Europea e la Combined Task Force 151 a comando statunitense. In aggiunta vi sono i contributi nazionali apportati autonomamente dagli Stati che non appartengono a nessuna missione multinazionale e tra questi ricordiamo la Cina, l’India, la Russia e l’Iran. [/box]

Foto di copertina di EU Naval Force Media and Public Information Office Licenza: Attribution-NoDerivs License

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Giulio Giomi
Giulio Giomi

Nato a Livorno nel 1988, mi sono laureato in Relazioni Internazionali presso l’Università LUISS di Roma. Precedentemente, ho ottenuto la laurea triennale in Scienze Politiche e Relazioni Internazionali presso l’Università di Pisa. Sono stato uno stagista presso il NATO Defense College e l’HQ della FAO. Quando non mi occupo di geopolitica, mi dedico alle altre mie due passioni: viaggi e calcio.

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